L’Eurotower ha alzato il velo sui salari
Tuttavia le due questioni possono trovare intrecci virtuosi e, alla fine, contribuire proprio a creare posti di lavoro aggiuntivi. Ci sono 800 contratti collettivi di lavoro, moltissimi sono già stati rinnovati; hanno seguito stagioni ritmate da incrementi retributivi regolari agganciati all’inflazione, anche quando questa era negativa. Hanno dato vita alla nuova era degli accordi sul welfare aziendale dove il salario è stato sostituito da benefit diffusi. Nel 15% dei casi, però, secondo fonti sindacali, e soprattutto nei servizi, il minimo contrattuale non viene applicato. Quando non ci sono comportamenti “ribassisti” delle aziende, ci sono i paradossi europei che consentono il Far West contrattuale come, ad esempio, nel settore della logistica, dove un autista di Tir polacco guadagna 2,5 euro l’ora (quasi un quarto della retribuzione prevista dai contratti per gli autisti italiani) anche se utilizzato da un’impresa in Italia. Non a caso questo dumping, legale, interno all’Europa ha rilanciato la discussione sul salario minimo per legge. In Europa e in Italia. Chi la propone spesso da noi ha un retropensiero: superare i contratti e puntare tutto sul salario individuale, senza mediazioni, senza rappresentanze di interessi. La stessa Bce, in un altro paper sulla disoccupazione giovanile, lo rilancia e parla della «necessità di arrivare al buon funzionamento della fissazione dei salari, anche quando si tratti di salario minimo». Uno studio della Confederazione europea dei sindacati ha dimostrato che, dove esiste contrattazione nazionale diffusa, la retribuzione oraria è più alta rispetto ai Paesi dove i minimi sono fissati per legge. Il contratto dei metalmeccanici ha rappresentato una novità importante: il contratto nazionale diventa “sostitutivo” in caso di mancanza di un contratto aziendale e lo “assorbe” se invece esiste. L’”integrativo”, come si chiamava una volta, è il vero livello negoziale portante, dove viene contrattata la produttività, vera ferita nell’economia del nostro Paese. È possibile che la stagione della recessione da cui stiamo lentamente uscendo porti con sé proprio un incremento di produttività grazie gli investimenti in tecnologie e in innovazione fatti da chi è riuscito a sopravvivere. Ma per arrivare a quote significative da redistribuire nelle buste paga (e nei profitti) serve una crescita assai più robusta. E togliere l’Italia dall’1% (circa) cui è inchiodata resta la sfida per qualunque gestore della politica economica. La spinta data dalla Bce alla discussione sul lavoro di qualità e sull’innalzamento dei salari ripropone però una sfida importante anche alle parti sociali. La risposta può comprendere una nuova architettura negoziale per diffondere di più i contratti di secondo livello (oggi esistono nel 30% delle imprese) ma anche un assetto giuridico più stabile per l’efficacia degli accordi, risolvendo una volta per tutte il tema dell’applicazione erga omnes dei patti e della certificazione della rappresentanza di chi li firma. Per non parlare degli scenari su possibili armonizzazioni europee.
Del resto è proprio la nuova Europa che si vorrebbe inclusiva e sociale a rilanciarle: la discussione che vede l’Italia promotrice di una forma europea di assicurazione contro la disoccupazione presuppone, come corollario, proprio una politica attiva efficace e non assistenziale, una reattività delle strutture pubbliche nella gestione della formazione e dei sussidi, un quadro di relazioni industriali chiaro e stabile. La Bce ha dato il colpo di starter, ora comincia la corsa. L’importante è non stare fermi.