Cavalieri del lavoro: allarme sui conti
Per gli imprenditori servono investimenti, ma nel Def non ce n’è traccia
«Un disastro – sbotta Alberto Bombassei – ci eravamo illusi che Tria potesse imporsi e invece..». «All’Italia servono investimenti, non assistenzialismo», sintetizza Gabriele Galateri di Genola. «A Roma – rincara la dose Andrea Illy vedo all’opera degli apprendisti stregoni». Sole accecante, giornata tersa, colline morbide e verdeggianti sullo sfondo non bastano a risollevare gli umori. I numeri uno di Brembo, Generali e Illy sintetizzano però un sentire diffuso tra i Cavalieri del Lavoro, riuniti a Torino per il convegno nazionale della Federazione. Dedicato alla rivoluzione digitale, allo sviluppo delle nuove tecnologie, alle possibilità offerte dai big data di migliorare prodotti e processi. Un futuro targato Industria 4.0 che già l’Italia si trova a dover affrontare non da posizioni di vertice: «Parliamoci chiaro – chiosa Vittorio Colao, ancora per un giorno ad di Vodafone group – l’ottimismo resta ma per ora, se guardiamo agli indicatori e ai confronti internazionali, noi siamo in Serie B».
L’idea di fondo, ribadita dal presidente di Intesa SanPaolo Gian Maria Gros Pietro ma anche dal presidente del gruppo piemontese dei Cavalieri del Lavoro Maurizio Sella, è quella di impegnarsi a fondo per cavalcare e non invece subire questa trasformazione, mettendo in campo investimenti, spinta alla formazione, strategie condivise per promuovere ricerca e sviluppo.
«Io però - scandisce Patrizio Bianchi - non ho mai visto un paese crescere con l’assistenza: per farlo servono infrastrutture einvestimenti, il resto sono chiacchiere da bar». L’applauso convinto della sala, una bocciatura chiara del reddito di cittadinanza, dà il senso della valutazione complessiva sulla manovra varata giovedì notte dall’esecutivo, considerata dai più un pericoloso passo indietro. O perché «ha lo sguardo rivolto al passato e fa perno su centri per l’impiego che non hanno mai creato lavoro», come spiega il presidente di Techint Gianfelice Rocca, oppure perché «alla fine a pagare saremo comunque noi, con maggiori tasse o costo del denaro più elevato», come aggiunge un «allibito e amareggiato» Aldo Bonomi, numero uno di Rubinetterie Bresciane.
«Questa manovra - scandisce nell’intervento conclusivo il presidente della Federazione Antonio D’Amato - è la negazione assoluta della strada maestra che il Paese dovrebbe prendere. Investire per fare crescere il prodotto interno lordo, non con politiche keynesiane ma con politiche di espansione. Questo nel Def non si legge». Direzione sbagliata, a maggior ragione, nel momento in cui l’Italia si trova in mezzo al guado, dovendo affrontare un salto di qualità per gestire la transizione tecnologica e restare al passo con i concorrenti esteri, migliorando la propria competitività. «Questa e non altra - aggiunge D’Amato - è la partita del Paese. E se è possibile chiedere e magari anche ottenere con motivazioni sostenibili deroghe in bilancio per realizzare investimenti produttivi che ci rendono più forti, è invece un errore chiedere questo per assistenze e clientele». Per l’Italia tutto questo genera un costo gravissimo. E se spread e listini azionari possono anche riprendersi, il rischio vero è quello di perdere interi pezzi dell’industria, minando la fiducia degli investitori. «Per far ripartire il paese dovremmo investire ma di questo nel documento non c’è traccia. Stiamo tornando alla peggiore logica dell’assistenza. Non si è mai creato lavoro e sviluppo facendo assistenza. Non si può guardare al futuro facendo passi indietro». Servirebbero riforme, una classe dirigente all’altezza delle sfide future ma anche un modo diverso di confrontarsi nell’arena politica. D’Amato, che in prima persona, da presidente di Confindustria, ha vissuto la tragica stagione degli attacchi ai giuslavoristi, feriti e ammazzati soltanto per aver sostenuto le proprie idee, ha parole dure nei confronti dell’attacco di Luigi Di Maio a Matteo Renzi in quanto “padre” del Jobs Act. «Definire assassino politico chi ha portato avanti una riforma che può legittimamente non essere condivisa - spiega - vuol dire creare una campagna di odio che nel nostro Paese ha tracce di sangue che non possono essere dimenticate».
E proprio i passi indietro sul Jobs Act vengono considerati un altro errore, proprio nel momento in cui il Paese ha bisogno di maggiore flessibilità sul mercato del lavoro per affrontare la profonda trasformazione in atto anche dal lato del know-how richiesto dalle imprese. Una rivoluzione da anticipare con riforme ad hoc, per consentire con interventi istituzionali e sociali adeguati di sfruttare al meglio l’opportunità delle nuove tecnologie. D’Amato ribadisce più volte la necessità di guardare al futuro, puntare sull’Europa, avere in Italia una classe dirigente capace di fare le riforme necessarie. Con l’attuale esecutivo che non pare essere considerato il candidato più idoneo per realizzarle.