«Il lavoro Usa corre grazie al recupero degli inattivi»
Il tasso di occupazione dei maschi di 25-54 anni è salito dall’88,2 all’89,1%
Mickey Levy è un veterano delle diagnosi dell’economia americana, senior economist di Berenberg dopo 15 anni a Bank of America e da sempre esponente dello Shadow Open Market Committee, prestigioso comitato di ispirazione conservatrice che come un’ombra segue i vertici della Banca centrale. Levy ha un semplice aggettivo per qualificare gli exploit di quello che è diventato il simbolo dell’espansione, il mercato del lavoro che flirta con la piena occupazione un mese sì e l’altro anche: «Robusto e in buona salute». Ma coltiva una risposta assai meno scontata e facile sul suo segreto e sulle prospettive ottimistiche, che giudica più uniche che rare: dati alla mano - spesso nascosti tra i grandi numeri - vede la spinta arrivare dal ritorno in gioco di americani, anzitutto uomini, nel pieno dell’età più produttiva e che erano rimasti emarginati. Strascichi della crisi di dieci anni or sono e di successivi, meno notati malesseri. È un fenomeno che battezza come «inattesa elasticità» nell’offerta di lavoro. Un’elasticità che promette ulteriori miracoli sotto forma dell’assorbimento di altri milioni di lavoratori.
Come fotografa il labor market statunitense?
C’è una significativa crescita negli occupati e un tasso di senza lavoro molto basso. Siamo reduci da un paio d’anni di aumenti negli impieghi superiori alle previsioni, a molti mesi di disoccupazione al di sotto dei tradizionali livelli di pieno impiego - ben mezzo punto percentuale al di sotto. Mentre i salari rimangono sotto controllo e i lavoratori nella “prime age”, tra i 25 e i 54 anni, vedono aumentare il loro tasso di partecipazione alla forza lavoro molto più del previsto. Proprio quest’ultimo fattore mi convince che oggi l’offerta di lavoro sia molto più elastica di quanto immaginato. Ci sono cioè molti lavoratori in questa fascia che stanno tornando attivamente nella forza lavoro.
Può spiegare più in dettaglio il fenomeno?
Lo stesso ministero del Lavoro aveva previsto semmai generali declini nel tasso di partecipazione; invece si è stabilizzato, al 62,7%-63%, grazie proprio all’incremento nella “prime age” che rappresenta il 49% del totale rispetto al 58% di vent’anni fa. Il recupero avviene anzitutto tra gli uomini, dove abbiamo assistito a brusche inversioni del protratto trend di flessioni, associate a guadagni in professioni con qualifiche medie e a dominio maschile, dalle costruzioni al manifatturiero, dal minerario a energia e trasporti. È dal 2016 che la crescita occupazionale è più rapida nei mestieri “maschili” almeno al 60 per cento. Il loro tasso di partecipazione è risalito all’89,1% dal minimo dell’88,2% nel 2014.
Da dove nasce questa sorpresa occupazionale?
Nel 2008-2009 abbiamo avuto una profonda recessione e negli anni seguenti un drammatico declino del tasso di partecipazione alla forza lavoro. Ma non basta: nel 2015-2016 c’e’ stata una caduta industriale, anche se meno notata: una recessione nella ripresa. Produzione industriale e spese di capitale sono scivolate. A ciò si è sommato il crollo del petrolio. Quindi lo spazio per un recupero si è ampliato. Adesso si innestano inoltre svolte verso una regolamentazione più leggera e riforme
«Inattesa elasticità nell’offerta, i nuovi posti dovrebbero aumentare ancora dell’1% all’anno»
Mickey Levy SENIOR ECONOMIST BERENBERG
delle tasse, anzitutto aziendali, che rafforzano fiducia del business e reddito disponibile. Credo che la disoccupazione, grazie a una simile miscela, si stabilizzerà attorno al 3,7%, già la soglia più bassa dal 1969. E prevedo un continuo incremento della forza lavoro, anche se meno pronunciato. I nuovi posti dovrebbero aumentare ad un passo annuale almeno dell’1% dall’1,7% recente.
Quali implicazioni ha questa flessibilità occupazionale per l’economia?
Che il mercato del lavoro non appare davvero alle soglie della piena occupazione e che l’inflazione rimane contenuta, prove di resilienza dell’espansione. Il Pil dal 3% atteso quest’anno dovrebbe rallentare solo leggermente, al 2,5%-2,7% l’anno prossimo. Non vedo imminenti recessioni, mancano a mio avviso gravi squilibri. E la Fed sarà attenta a non provocarla. Nel più lungo periodo stimo la crescita potenziale attorno al 2,3%-2,4 per cento. Al momento, sostenuta da stimoli monetari e fiscali, un’economia in stadio avanzato di espansione è in grado di esibire tratti ben più giovanili, da metà ciclo.