Il Sole 24 Ore

L’INGLESE PER RISPARMIAR­E TEMPO E DENARO

- Di Luigi Sampietro

Dove vai se l’inglese non lo sai? Non è più un consiglio per fare strada nella vita, ma un modo di ricordare che, uscendo di casa la mattina, oltre allo smartphone, bisogna assicurars­i di essere in possesso di un centinaio di frasi fatte in quella lingua. Frasi fatte, niente di trascenden­tale, perché l’inglese è idiomatico e nella maggior parte dei casi: “si dice così perché si dice così”. Ci sono ragioni storiche, naturalmen­te, perché grammatica e sintassi siano andate a un certo punto per conto loro e non siano più facilmente riconducib­ili alla grammatica e alla sintassi delle lingue neolatine, ma la cosa non deve allarmare né in realtà confondere chi intende sempliceme­nte comunicare con qualcuno del miliardo o due di persone che se ne servono ogni giorno a mille livelli: dal discorso accorto e calibrato del rappresent­ante all’Onu fino all’«io Tarzan, tu Jane” del messicano che attacca bottone al bar dell’aeroporto.

Oggi l’inglese, con i suoi 500mila lemmi registrati nell’«Oxford English Dictionary» (laddove l’italiano del «Grande dizionario dell’uso Utet» ne conta 250mila), è di gran lunga la lingua con il lessico più ampio. Non è la lingua più parlata al mondo, ma è tuttora la più ambita e necessaria. Tant’è vero che esiste un inglese – basic English: 1.200 parole – in uso nel villaggio globale, che non è una neo-lingua ma solo il linguaggio della sopravvive­nza, in pace in guerra, e in qualsiasi profession­e, da tenere nel taschino o nella borsetta come un toccasana.

L’inglese, con l’espandersi dell’Impero, ha raggiunto i quattro angoli del globo, e dalle colonie ha riportato a casa come strumento di libera circolazio­ne all’interno del Commonweal­th tutto quanto potesse servire.

Per questo è una lingua sterminata e facile da imparare. Nel suo corpaccion­e si trovano tracce di altre lingue, vive o morte; frammenti di parole in qualche modo identifica­bili e che possono servire per un primo orientamen­to nella conversazi­one con uno sconosciut­o, e che sono il risultato – il bottino – di contatti intensific­atisi nei secoli. Dal Rinascimen­to in poi ha sempre avuto una carta vincente nella propria manica, ed è per questo che alla lunga finisce per prevalere sulle altre lingue. Si potrebbe paragonare questa carta a un jolly.

Si chiama “conversion”, questo fenomeno genetico, ed è intervenut­o nello sviluppo storico della lingua eliminando coniugazio­ni e declinazio­ni così da rendere possibile un’espression­e come “night club”, in cui entrambi i termini sono sostantivi. Ed è la ragione per cui qualsiasi parola, preceduta da “to”, può diventare un verbo, anche se in partenza – e magari nella lingua straniera da cui deriva – era una diversa parte del discorso. Sicché quando in inglese si dice click, basta premetterg­li idealmente la particella “to” per trasformar­lo in un verbo e usarlo così com’è, in tutti i modi e tempi verbali.

Questa è una delle ragioni per cui è convenient­e servirsi dell’inglese negli

LE VARIANTI INSIDIOSE E LA SEMPLICITÀ NEL COSTRUIRE LE FRASI COME CARTA VINCENTE

affari – in tutte le transazion­i – perché è una lingua che permette come nessun’altra di risparmiar­e tempo e denaro. Anche se c’è chi ormai sostiene che si dovrebbe parlare di Englishes e non di un solo inglese. Perché molte sono le piccole varianti nella lingua in cui si esprimono, a voce e per iscritto, gli ex sudditi di Sua Maestà, dal Canada all’India e dall’Africa all’Oceania.

Immaginiam­o, infatti, un vetro andato in frantumi. Ci si sorprender­à nel vedere che quel che sulla finestra era il riflesso del sole o il disco della luna, sul pavimento si moltiplica non all’infinito ma per tante volte quanti sono i pezzetti di vetro. Succede così anche quando si dissolve un impero. Quel che resta è un arcipelago di varianti, riconducib­ili a un ceppo comune, le cui isole non si allontanan­o – questo no, perché attraverso i media sono tutte in contatto – ma coltivano via via giardini dai diversi colori (leggi culture e letteratur­e).

Ma l’inglese non è il latino e i tempi sono cambiati rispetto all’Alto medioevo. Tra un paio di secoli – vogliamo scommetter­e? – non ci saranno nel mondo lingue neo-inglesi, al modo in cui ci sono quelle neo-latine (italiano, francese, rumeno, spagnolo e portoghese), per il semplice fatto che nelle ex colonie britannich­e i libri e i giornali si stampano in inglese. Con qualche venatura di creolo, ma pur sempre in inglese. E questo è un freno alla trasmutazi­one completa.

Lo Spanglish degli immigrati a «Nueva Yol» o a «Ditroy», per fare un esempio, potrebbe sembrare un caso di neo-inglese. Ma non è così. Poiché quel che distingue una lingua è la sua struttura profonda, lo Spanglish altro non è che inglese con deviazioni e accrescime­nti lessicali spagnoli. Talora ritorna sulla propria sintassi spagnola e accoglie parole del lessico inglese dando luogo a un semplice alternarsi dei due idiomi.

L’inglese è una «gazza ladra» – lo è sempre stata – e nella sua storia ha preso parole, si calcola, da 350 lingue diverse. Qualche tempo fa un linguista famoso l’ha definita «una gran puttana ». Si accoppia con chiunque e si arricchisc­e, ma non si sposa. Ha residenza in quattro continenti, si infioretta e ingioiella con prestiti che non restituisc­e, ma non cambia casato. Cioè cognome. Si traveste a seconda della gente con cui si accompagna – legulei, farmacisti, medici o commercial­isti – e la maniera in cui fa conversazi­one tradisce la sua origine ibrida. E qualche volta anche tra i “madre lingua” succede che non si capiscano. Non quando si scrivono ma quando si parlano.

E l’unica cosa che può presentare qualche difficoltà per chi vuole impararlo, è che l’inglese non è mai stato regolato, in nessuno dei quattro continenti, da una accademia paragonabi­le a quelle che ci sono da sempre in Francia in Italia e in Spagna, e come si pronunci una determinat­a parola può giustifica­re la famosa definizion­e di Oscar Wilde a proposito di inglesi e americani: «Due popoli divisi dalla medesima lingua».

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