Il patto parasociale tra ex coniugi resiste all’aumento di capitale
L’accordo per 5 anni sull’assetto di una Spa era allegato alla separazione L’intesa sulle cariche sociali è valida anche se un socio passa dal 45 al 97 per cento
È valido il patto parasociale, di durata quinquennale, relativo alla nomina del presidente e dei componenti del Cda e dei membri del collegio sindacale di una Spa, stipulato da coniugi nell’ambito di un accordo di separazione personale finalizzato, tra l’altro, alla divisione delle azioni della Spa stessa le quali, durante il matrimonio, erano state assoggettate al regime di comunione legale dei beni.
È quanto deciso dalla Cassazione con la sentenza 18138/2018, che pare priva di precedenti sul punto di esprimere una valutazione di legittimità circa un patto parasociale che trova fonte nell’ambito di un procedimento di separazione coniugale: secondo il giudice di legittimità il patto sottoposto al suo giudizio è dunque valido perché trova causa in un accordo di separazione coniugale e perché non determina lo «svuotamento dei poteri dell’assemblea, nè» una «compressione esorbitante del diritto di proprietà» sulle azioni vincolate nel patto stesso. Essendo valido, il patto in questione non risente delle «vicende che concernono il successivo svolgimento dell’impresa sociale». Il caso giudicato è quello di di una coppia che aveva stipulato un accordo di separazione personale nel quale essi si erano accordati circa la divisione delle azioni di una Spa, già vincolate in regime di comunione legale, stabilendo che alla moglie fosse attribuita la proprietà esclusiva delle azioni rappresentative del 45% del capitale sociale e al marito la proprietà esclusiva delle azioni rappresentative del 50%del capitale sociale.
I coniugi avevano inoltre stipulato un patto, riportato nel verbale di separazione oggetto di omologa da parte del Tribunale, nel quale avevano «regolato la materia delle nomine» degli organi sociali: in particolare, l’accordo prevedeva che il Cda della Spa fosse composto da cinque componenti e che al marito spettasse il potere di “autonominarsi” presidente del Cda nonché «il potere di rappresentare la società e di esercitare in via delegata i poteri di ordinaria amministrazione, nonché, entro dati limiti, quelli di straordinaria amministrazione».
Poi, la Spa si è trovata alle prese con un’operazione di aumento del capitale sociale, in ragione delle sue esigenze imprenditoriali. L’ex moglie, avendo integralmente sottoscritto sia la quota di aumento a essa spettante in opzione, sia la quota di aumento spettante in opzione al marito, ma da questi non opzionata (divenendo così titolare di oltre il 97% del capitale sociale), si rivolge dunque al giudice per sentir dichiarare la nullità del patto parasociale, poiché ritenuto non meritevole di tutela, illecito e stipulato in «violazione del principio dell’esclusività della funzione gestoria» in base al quale è riservato al Cda il compito di scegliere tra i suoi componenti il presidente, ove non sia nominato dall’assemblea. In sostanza, secondo la ricorrente, l’intervenuto mutamento delle quote di partecipazione al capitale sociale della Spa avrebbe «senz’altro comportato» la «cessazione … degli effetti del patto parasociale»: a seguito dell’aumento di capitale sociale era infatti venuto meno l’assetto proprietario contraddistinto da «una partecipazione quasi-paritaria» «dei parasoci al capitale sociale» e, quindi, era venuta meno una «partecipazione pressoché paritaria al rischio di impresa», cosicché la situazione sopraggiunta non giustificava più «la costruzione, a mezzo della convenzione parasociale, di un regime di controllo congiunto». Al contrario, la permanenza del patto parasociale avrebbe violato il «principio costituzionale di tutela della proprietà privata».
Rigettando il ricorso, la Cassazione ha osservato che il patto parasociale oggetto del giudizio, avendo natura temporanea (quinquennale), non viola il principio che impedisce lo svuotamento dei poteri dell’assemblea poiché non determina la «deprivazione dell’effettivo esercizio dei poteri assembleari». Detto accordo, preordinato a prevedere un «regime di controllo congiunto della società da parte dei due coniugi separati», dato che riguardava solo il «tema delle cariche sociali», è stato ritenuto dalla Cassazione inidoneo a determinare «lo svuotamento dei poteri dell’assemblea».