Anche gli Usa boicottano la «Davos» voluta da Riad
Il segretario al Tesoro Usa, i ministri francese e inglese diserteranno la Davos araba Per Washington è in ballo un’alleanza che va dall’Iran al petrolio e alle armi
Sul caso Khashoggi, il mondo isola il principe saudita Mohammed bin Salman, l’organizzatore della Davos nel deserto in programma settimana prossima a Riad. Anche il segretario al Tesoro americano, Steven Mnuchin, ha scelto di disertare l’appuntamento.
Ci ha messo del tempo prima di prendere la decisione, aspettando che molti suoi colleghi lo precedessero. Ma l’ultimo uomo di Governo ad annullare la sua partecipazione al Future Investment Initiative, la “Davos del deserto” che si terrà a Riad la prossima settimana, è finora il nome più illustre: Steven Mnuchin,il Segretario al Tesoro americano. Dopo essersi consultato con il presidente Donald Trump e con il segretario di Stato Mike Pompeo, anche Mnuchin ha deciso di disertare il forum organizzato dalla monarchia saudita per attrarre investimenti internazionali in vista del suo ambizioso piano di riforma dell’economia. Poche ore prima era stata la volta del ministro britannico al commercio internazionale Liam Fox, a sua volta preceduto dal ministro francese delle Finanze, Bruno Le Maire. Mercoledì anche Christine Lagarde, capo del Fondo monetario internazionale, aveva sciolto le riserve.
Se il mondo della finanza internazionale si è mosso con maggiore tempestività (sono molte le grandi compagnie a non partecipare al Forum), anche quello della politica preferisce non esporsi, e attendere i risultati di un’indagine che sta gettando ombre inquietanti sul ruolo della monarchia saudita nel presunto assassinio del giornalista saudita Jamal Khashoggi, scomparso lo scorso due ottobre nel consolato saudita di Istanbul (secondo le autorità turche è stato torturato e poi fatto a pezzi). Un caso che sta provocando un terremoto geopolitico. Con il passare dei giorni di profila il probabile coinvolgimento del potente principe reggente, Mohammed Bin Salman. È lui(33 anni) che tiene le redini del regno wahabita. E che Trump ha scelto nel giugno del 2017 per forgiare un’alleanza strategica in chiave anti-iraniana.
Ora che il presidente francese Emmanuel Macron,in coordinamento con Germania, Regno Unito e Olanda, ha dichiarato di aver sospeso le visite francesi in Arabia,Trump si trova in imbarazzo. In principio ha cercato di minimizzare il caso, accennando alla possibilità che fosse l’opera di «delinquenti comuni». Poi, incalzato dal Congresso a chiedere a Riad un’inchiesta accurata e rapida (potrebbe anche partire un’indagine dell’Onu), ha continuato a utilizzare un approccio garantista - davvero insolito per lui - nei confronti di Bin Salman.
D’altronde in ballo c’è un’alleanza strategica che spazia da grandi interessi economici, a problemi di sicurezza nazionale fino alle strategie geopolitiche mediorientali. Trump sta cercando di preservarla a tutti i costi. Per lui, che ha fatto contratti a favore di aziende Usa uno dei perni della sua campagna elettorale, il mega accordo di fornitura di armi ai sauditi 110 miliardi di dollari va preservato ad ogni costo.Se non acquisteranno armi dagli Usa,i sauditi le acquisteranno da Cina e dalla Russia, ha ammonito.
Vi è poi il bollente “dossier iraniano”. Il fulcro dell’alleanza per isolare l’Iran, portando, se possibile, a un cambio di regime, è formato da tre Paesi: Israele, Usa, e i sauditi. Per tutti e tre l’Iran è il peggiore dei mali.
Occorre dunque essere compatti. Soprattutto ora che entrerà in vigore (il 4-5 novembre) il secondo round di sanzioni americane. Tra le quali dovrebbe scattare anche l’embargo petrolifero. Se quasi tutti i Paesi del mondo si conformassero alle sanzioni americane – cosa improbabile – verrebbero a mancare sui mercati del greggio 2,5 milioni di barili che l’Iran esporta ogni giorno. Ma anche se fosse solo la metà, si tratterebbe di una perdita consistente capace di impennare i listini internazionali del barile. Trump, che ha sempre difeso prezzi più bassi del greggio, confida nell’aiuto di Riad. La monarchia saudita ha risposto all’appello, aumentando la sua produzione petrolifera (da maggio a oggi di 700mila bg portandola a 10,7 mbg). Un trend che, se necessario, i sauditi intendono proseguire. Sempre che tenga l’alleanza tra Riad e Washington.
In palio c’è anche il dossier terrorismo islamico. Per l’amministrazione di Trump la guerra contro il terrorismo jihadista, che si tratti dell’Isis o dei movimenti qaedisti, è una priorità. Le basi militari americane presenti sul suolo saudita sono fondamentali per portare avanti questa guerra. Come lo è la collaborazione di Riad.
Trump vorrebbe dunque salvare il giovane principe saudita. Ma le pressioni su Mbs cominciano ad essere ingombranti. Come riportato dal New York Times, anche gli 007 americani credono che il principe reggente sia coinvolto nell’uccisione del giornalista che da un anno viveva in auto-esilio in Usa. Servirà trovare un capro espiatorio più credibile. O un altro principe saudita capace di prendere il posto di Mbs(se venisse trovato direttamente coinvolto nel caso). Cosa molto difficile.
Per quanto complessa, e non priva di ambiguità, la strategica - e storica alleanza con Riad non si discute. Era il 14 febbraio 1945 quando il monarca saudita Abdulaziz Ibn Saud e il presidente americano Franklin Delano Roosevelt gettarono le basi della loro alleanza: petrolio e basi aeree sul suolo saudita in cambio della protezione americana del Regno. Tra alti e bassi la relazione ha retto. Riad non è solo il maggior partner commerciale americano in Medio Oriente (peraltro l’80% circa delle sue grandi riserve sono in dollari e titoli americani). E neppure il suo più importante acquirente di armi. Quello che lega Riad e Washington è anche la grande acredine verso l’Iran. Profonda e sincera.