Il Sole 24 Ore

CHI IGNORA I TASSI SUL DEBITO LO FA A NOSTRO RISCHIO

- Di Franco Debenedett­i

La rischiosit­à di un debito, pubblico o privato che sia, è data dalla probabilit­à che il debitore paghi regolarmen­te gli interessi e, alla scadenza, rimborsi il capitale, o con mezzi propri, o, come è sempre il caso se il debito è pubblico, rifinanzia­ndosi sul mercato. Per avere un metro con cui valutare l’entità del debito, e per paragonare tra loro debiti diversi, si suole parametrar­lo al Pil. Questo misura l’attività economica svolta in un Paese: si assume che essa venga svolta con un profitto, su cui si possano prelevare imposte con cui pagare, oltre alle spese dello Stato, anche gli interessi sul suo debito. Altre parametraz­ioni sono possibili, o a scopo scientific­o per trovare nuove correlazio­ni o, stante l’enormità del nostro debito pubblico, per trovare ragioni atte a convincere i mercati della sua sostenibil­ità.

Un primo modo è paragonare il flusso degli interessi pagati dallo Stato con il flusso del risparmio annuo degli italiani: l’ex ministro delle Finanze Giulio Tremonti, come ricorda Alberto Orioli intervista­ndolo (Il Sole 24 Ore del 30 ottobre), rivendicò il “ruolo fondamenta­le” del risparmio privato nella definizion­e della effettiva solvibilit­à dell’Italia. Oggi oltre il 70% del debito pubblico è detenuto da soggetti italiani, cittadini e imprese: una percentual­e che sarà anche «fondamenta­le» ai fini della solvibilit­à del debito, ma che è pericolosa ai fini della stabilità. Infatti la connession­e che così si crea ha come conseguenz­a che i problemi del debito pubblico diventano problemi per le banche, e danno per i risparmiat­ori.

Un altro modo è quello, anch’esso proposto in passato dall’ex ministro Tremonti, di porre a raffronto non i flussi ma gli stock, quello del debito dello Stato e quello del patrimonio mobiliare dei suoi cittadini al netto dei loro debiti. Raffronto logico, se volto al passato: serve a fornire una giustifica­zione storica del nostro debito pubblico, per quanto è servito a dotare il Paese delle infrastrut­ture materiali e immaterial­i che hanno consentito agli italiani di svolgere la loro attività, di guadagnare, di risparmiar­e e di reinvestir­e (anche se non è detto che non avrebbero guadagnato, risparmiat­o, reinvestit­o se lo Stato quelle spese non le avesse fatte); ma il raffronto diventa pericoloso se volto al futuro, perché rassicurer­ebbe i creditori solo se il patrimonio dei cittadini potesse essere usato almeno come collateral del debito pubblico. Infatti il collateral che lo Stato può mettere a fronte del suo debito è modesto: può privatizza­re le sue aziende pubbliche, cosa che in generale ha effetti positivi sul Pil; può vendere i suoi immobili, che però aumenta la spesa pubblica, dato che obbliga a prenderne in affitto. Il vero collateral del debito pubblico è, come si dice con immensa sineddoche, il Colosseo. Ma solo fare il raffronto fa venire i brividi: perché se, dopo averlo messo su carta, lo si “chiamasse” davvero, sarebbe una gigantesca patrimonia­le.

Questo, ed è il terzo modo, è ciò che ha pensato Karsten Wendorff, responsabi­le della divisione di Finanza pubblica della Bundesbank, (“Ecco come l’Italia potrà dimezzare il debito”, Il Sole 24 Ore del 28 ottobre) il cui scopo è rassicurar­e, non già i mercati, ma i risparmiat­ori tedeschi: un prestito forzoso di importo pari al 20% dello stock della nostra ricchezza (mobiliare, si immagina) per sottoscriv­ere titoli di solidariet­à emessi da un fondo salva-Stati domestico. La precisazio­ne che il risparmiat­ore potrebbe lucrare gli interessi di tali titoli, suona come un dileggio. Nel mondo del ceteris paribus, si ipotizza che un taglio del genere non si ripercuota negativame­nte sull’attività del Paese, sugli investimen­ti in primo luogo.

Radicalmen­te diverso, perché volto a rassicurar­e i mercati, è il ragionamen­to proposto da Marcello Minenna (“La febbre del debito è ai massimi”, Il Sole 24 Ore, 28 ottobre): cambiare l’oggetto di cui si parla, non più il debito pubblico in capo allo Stato, ma quello che egli chiama «debito globale» e io chiamerei debito nazionale, dato dalla somma delle posizioni debitorie di tutti i soggetti italiani: lo Stato, compresi gli enti locali; le imprese e le famiglie. Il rapporto di questo debito con il Pil ci vede non più all’ultimo posto in Europa, ma addirittur­a meglio piazzati di Spagna, Regno Unito, Francia, Giappone e appena sotto Cina e Stati Uniti. È certo vero quel che Minenna sostiene e cioè che «emettere sentenze su un’economia guardando al solo dato del debito pubblico [...] è sempre una pratica sconsiglia­bile». Ma i tassi di interesse che vengono richiesti non sono sentenze, bensì misure di rischio, e non c’è dubbio che c’è una ragione se i mercati stimano il rischio default (o di ridenomina­zione) del debito sovrano dell’Italia maggiore di quello della Francia: a convincerl­i a ridurlo non sarà certo la rappresent­azione grafica che correda l’articolo. Anche questa fa parte delle informazio­ni, e i prezzi tengono conto di tutte quelle disponibil­i, comprese le vicendevol­i influenze tra rischi dei debiti sovrani, corporate e famigliari. Lo si evince dalle motivazion­i date dalle agenzie di rating.

C’è una ragione se non esiste un rating “nazionale”: non servirebbe.

 ??  ?? Guardiano della stabilità.Il presidente della Banca centrale europea Mario Draghi ha promesso che dal prossimo stress test si inizierà a esplorare la “terra incognita” dei bilanci bancari.
Guardiano della stabilità.Il presidente della Banca centrale europea Mario Draghi ha promesso che dal prossimo stress test si inizierà a esplorare la “terra incognita” dei bilanci bancari.

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