ETF, BANCHE EUROPEE ESPOSTE PER 140 MILIARDI
La recente pubblicazione degli stress test della European banking authority (Eba) ha ancora una volta posto l’attenzione su due aspetti primari relativi alla stabilità del sistema bancario. Il primo è quello dei dati da cui partire e delle ipotesi su cui costruire gli scenari avversi su cui “stressare” la tenuta delle banche. Il secondo è quello del perimetro e delle categorie di attivi su cui verificare effetti e tenuta.
Vorrei, in particolare, concentrarmi su questo secondo aspetto. L’attenzione delle istituzioni e delle autorità di vigilanza in Europa è stata molto forte rispetto a tutti gli asset derivanti dall’attività creditizia e questo è fatto noto. Negli anni sono divenuti sempre più stringenti la regolamentazione e la vigilanza su questo comparto dell’attività bancaria al punto che oggi possiamo affermare che il sistema ne ha certamente guadagnato in termini di stabilità e di controllo del rischio di credito, anche se ancora ne vanno valutati appieno gli effetti in termini di funzionalità e supporto al sistema economico. La stessa attenzione non si è tuttavia registrata nelle attività di investimento delle banche e, di conseguenza, su quello che è il reale profilo di rischio, sia di liquidità che di mercato.
Le banche europee, molto meno quelle italiane, hanno “in pancia” titoli che appartengono a categorie di attivi la cui accountability non sempre si confronta con mercati regolamentati e, quindi, con prezzi di riferimento espressione di un continuo confronto tra domanda e offerta. E quale sia la reale tenuta di tali posizioni rispetto a scenari avversi, sia sotto il profilo del valore, sia sotto il profilo della liquidità, non è dato saperlo.
Già su queste pagine il 4 novembre il professor Marco Onado ha posto l’attenzione sul tema citando gli attivi level 2 e level 3 come aree ancora troppo opache.
Un caso particolare, a mio avviso, potrebbe essere quello degli Etf (Exchange-traded fund) “sintetici” in carico alle banche. Secondo alcune stime degli operatori, l’esposizione complessiva in Europa potrebbe oscillare intorno ai 140 miliardi di euro, anche se un valore esatto è difficile determinarlo e già questo rappresenta un elemento di criticità. Si tratta di strumenti finanziari che per replicare l’indice di riferimento non prendono posizioni sui titoli che lo compongono fisicamente, ma stipulano un contratto swap con una banca che si impegna nei confronti dei sottoscrittori sull’andamento dell’indice. L’elemento peculiare sta nel fatto che la performance promessa ai sottoscrittori è garantita da una banca, con due tipi di rischi: il primo è che la banca garante possa risultare inadempiente, il secondo è che il gestore dell’Etf metta come collaterali a garanzia titoli rischiosi. La valutazione di questi strumenti è determinata da modelli (mark-to-model) e non dal mercato (mark-to-market), il che rappresenta un fattore di rischio nel momento in cui tali modelli non siano in grado di prezzare adeguatamente rischi e profili di liquidità. Su questo la European securities and markets authority (Esma) ha posto grande attenzione ma è fenomeno da continuare a monitorare.
Il fatto che nella costruzione e nella verifica della stabilità del sistema si sia data negli anni più enfasi ai rischi di credito e meno a quelli di mercato e di liquidità derivanti da queste categorie di attivo è un elemento che potrebbe avere due effetti negativi. Il primo sta nella natura stessa della verifica che se ha l’obiettivo di misurare quanto il sistema sia sano non raggiunge questo obiettivo se focalizza l’attenzione più su alcuni ambiti che su altri. Il secondo è un elemento distorsivo della concorrenza. L’equity, si sa, è risorsa scarsa e sin dalle origini dell’impianto regolamentare definito dal Comitato di Basilea è stato ben noto che esso va usato secondo certi parametri a copertura dei rischi. Negli anni il portafoglio rischi delle banche si è evoluto ed è diventato sempre più articolato. Ma il principio è rimasto immutato. Se però vi è asimmetria nel modo in cui le varie categorie di attività assorbono il capitale, dato il modo in cui ne vengono misurati i relativi rischi, l’effetto è che le banche ridefiniscano il proprio portafoglio di attività dove l’assorbimento di capitale è più basso. E questo finisce col penalizzare le banche che fanno credito rispetto alle banche che investono in titoli illiquidi e poco trasparenti.
Ordinario di Financial Markets & Institutions e Risk Management
Politecnico di Milano