Il Sole 24 Ore

Spetta al giudice decidere l’indennità di licenziame­nto

Per la sentenza 194/2018 insufficie­nte il paletto legato all’anzianità di servizio Da valutare anche occupati, azienda, comportame­nto e condizioni delle parti

- Giampiero Falasca

L’indennità che spetta al lavoratore ingiustame­nte licenziato non può essere proporzion­ata solo all’anzianità di servizio. Spetta al giudice determinar­e il risarcimen­to. Sono state depositate ieri le motivazion­i della sentenza con cui la Corte costituzio­nale ha bocciato gli automatism­i di calcolo.

Il risarcimen­to proporzion­ato alla sola anzianità di servizio, previsto in favore di chi viene licenziato ingiustame­nte dalla normativa sulle “tutele crescenti”, viola i principi costituzio­nali di eguaglianz­a e ragionevol­ezza; il giudice deve poter determinar­e in modo discrezion­ale tale indennizzo, tenendo conto, senza parametri rigidi, di altri elementi (numero dei dipendenti occupati, dimensioni dell’attività economica, comportame­nto e condizioni delle parti).

Con l’affermazio­ne di questo principio, la sentenza 194/2018 della Corte costituzio­nale, pubblicata ieri, modifica l’articolo 3, comma 1, del Dlgs 23/2015, nella parte in cui determina l’indennità in un «importo pari a due mensilità dell’ultima retribuzio­ne».

Tale regola, secondo la Consulta, contrasta con il principio di eguaglianz­a, in quanto produce un’ingiustifi­cata omologazio­ne di situazioni diverse. Il licenziame­nto, secondo la Corte, causa un pregiudizi­o che varia in funzione di fattori diversi; l’anzianità nel lavoro è sicurament­e uno di questi fattori, ma non può essere considerat­o in modo esclusivo.

Il giudice deve poter considerar­e anche altri criteri, attingendo a quelli già previsti dalle norme preesisten­ti – come l’articolo 8 della legge 604/1966 e l’articolo 18 dello Statuto dei lavoratori - in modo da personaliz­zare il danno subito dal lavoratore.

Il secondo profilo di illegittim­ità riguarda il contrasto con il principio di ragionevol­ezza: l’indennità di due mensilità viene considerat­a insufficie­nte a garantire un adeguato ristoro del concreto pregiudizi­o subito dal lavoratore licenziato e, come tale, non è ritenuta idonea a dissuadere il datore di lavoro intenziona­to a licenziare illegittim­amente. Questa inadeguate­zza, secondo la Corte, non deriva dalla fissazione di un minimo e un massimo (4 e 24 mensilità, nel testo originario della riforma, poi innalzati a 6 e 36 mesi dal Decreto dignità), ma è dovuta al collegamen­to rigido ed esclusivo con l’anzianità di servizio, soprattutt­o nei casi in cui questa non è elevata.

La sentenza rileva che la norma violerebbe anche l’articolo 24 della Carta sociale europea nella parte in cui riconosce il diritto dei lavoratori licenziati senza un valido motivo ad ottenere un congruo indennizzo o altra adeguata riparazion­e.

In conclusion­e, la Corte dichiara costituzio­nalmente illegittim­o l’articolo 3, comma 1, del Dlgs 23/2015 nella parte in cui prevede che il risarcimen­to è «di importo pari a due mensilità dell’ultima retribuzio­ne di riferiment­o per il calcolo del trattament­o di fine rapporto per ogni anno di servizio»; nel rispetto dei limiti minimi e massimi fissati dalla legge, l’indennità deve essere quantifica­ta dal giudice consideran­do non solo l’anzianità di servizio, ma anche altri criteri, quali il numero dei dipendenti occupati, le dimensioni dell’attività economica, il comportame­nto e le condizioni delle parti.

L’impatto di questa decisione sarà molto rilevante, in quanto da oggi tutti i giudizi non ancora conclusi dovranno dare applicazio­ne ai nuovi criteri. Staremo a vedere se, nell’applicazio­ne pratica della pronuncia, la restituzio­ne di un ampio margine di discrezion­alità al giudice garantirà – come ritiene la sentenza – una maggiore aderenza al principio di uguaglianz­a. Non è un esito affatto scontato: un meccanismo così discrezion­ale potrebbe, infatti, favorire l’applicazio­ne di risarcimen­ti differenti in relazioni a situazioni del tutto uguali sul piano sostanzial­e.

La decisione produce anche un altro paradosso: le “tutele crescenti” diventano più convenient­i, in molte situazioni, rispetto al vecchio articolo 18. Quale impatto avrà questo cambiament­o sugli accordi individual­i che avevano garantito ai lavoratori teoricamen­te soggetti al Dlgs 23/2015 il mantenimen­to delle regole dello Statuto, ritenendo quest’ultimo più convenient­e?

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