Usa, prove di cooperazione bipartisan sulle infrastrutture
Il Congresso diviso potrà evitare lo stallo rilanciando il piano da 1.500 miliardi I repubblicani puntano però sui privati, i democratici sulla spesa federale
Infrastrutture, nuovo atto. Le grandi opere promettono di diventare il vero, grande test per un compromesso sulle politiche economiche americane all’indomani delle elezioni di Midterm, tra un Congresso parzialmente in mano ai democratici, la “blue wave” che ha conquistato la Camera, e la Casa Bianca di Donald Trump affiancata dal Senato repubblicano. Più del commercio, dove è in bilico il fato del rivisto Nafta battezzato USMCA, di azioni su caro-farmaci e sanità, di neo-sgravi fiscali ai ceti medi o riforme dell’immigrazione, potrà oggi, forse, l’appello a superare la paralisi su un piano di investimenti da 1.500 miliardi. Un piano rimasto lettera morta nei primi due anni di presidenza Trump, ingolfati da priorità più combattive - deregulation, conflitti con i partner, tagli delle tasse per le aziende. Ma la cui urgenza è semmai aumentata.
Non a caso ne hanno subito parlato, prendendo fiato da dure polemiche, sia l’attuale leader democratico alla Camera Nancy Pelosi che Trump. La dimostrazione più concreta arriva però da comuni “soldati” di Washington, quali il deputato democratico Eric Swalwell. Fresco di rielezione in una circoscrizione californiana tra San José e San Francisco dove dovrebbe passare un giorno un treno ad alta velocità, ha le idee chiare: «Sulle infrastrutture, su scuole, sistema elettrico e idrico, trasporti, mobilità e aeroporti, abbiamo punti di contatto».
Il giudizio dell’American Society of Civil Engineers ormai pesa come un macigno: il voto sulle infrastrutture ponti e strade; acquedotti, fognature e dighe; ferrovie e tunnel - è inchiodato a D+, sull’orlo d’una insufficienza totale. E pericolosa: i ponti non crollano solo in Italia, nel 2007 in Minnesota persero la vita 13 persone. Lievitano i costi economici, tra ritardi e produttività persa: dalle tasche delle famiglie le carenze infrastrutturali tolgono 3.400 dollari l’anno, più dei vantaggi di tanti sgravi fiscali. Né le stime di ciò che davvero serve sono modeste: la manutenzione, senza innovazioni, richiederebbe in dieci anni 4.500 miliardi. Altrimenti il Pil vedrà evaporare altrettanto e spariranno 2,5 milioni di posti di lavoro. A fronte di una simile domanda, la tendenza, da invertire, a un deficit di interventi è storica: dal 4,2% del Pil negli anni Trenta, la spesa in infrastrutture è scesa all’1,5%.
Tutti d’accordo, dunque? Non proprio. Il dibattito, nei prossimi mesi, sarà acceso e ripartirà da dove si è arenato. Il nodo resta la formula. Il piano Trump, presentato a fatica a inizio anno, prevede limitatissimi interventi pubblici: incentivi di 200 milioni che dovrebbero attirare fondi locali e privati destinati a coprire il resto del fabbisogno. Un quarto andrebbe ad aree rurali e 20 miliardi a progetti “trasformativi”. I privati controllerebbero molte di queste opere a profitto. Ma i democratici criticano l’approccio: lo condannano come ottimistico e inadeguato, capace di premiare solo aree dove i privati avrebbero ragione di investire per una futura rendita. La strategia dem fa leva su almeno mille miliardi in spesa federale.
A moltiplicarsi saranno però anche inediti incentivi a cercare intese politiche: democratici e repubblicani dovranno mostrare alle rispettive basi di sapere realizzare alcune iniziative in vista del voto presidenziale del 2020; e l’espansione dovrebbe imboccare una traiettoria discendente nel 2019 frenando al 2,5%, con le infrastrutture tra le soluzioni più sicure per sostenere crescita e impieghi. Perciò idee di compromesso già circolano: aumentare la voce federale, pur tenendo conto dei limiti di bilancio (un passivo in media al 5% del Pil) e rilanciare partnership pubblico-privato. Nuove tasse, un incremento dell’imposta sulla benzina ferma dal 1993, appaiono invece più difficili. Le infrastrutture hanno anche un altro vantaggio: aperte spesso al know how di aziende europee,possono stemperare le tensioni con i partner internazionali.