Il Sole 24 Ore

EUROPA SPIAZZATA DALLA NUOVA VIA DELLA SETA

- Di Andrea Goldstein

Vuole la leggenda che nel 1972 Chou En-Lai, interrogat­o sulla Rivoluzion­e francese, abbia risposto che era troppo presto per esprimere un giudizio. A soli cinque anni dai discorsi di Astana e Jakarta in cui Xi Jinping ne parlò per la prima volta, è legittimo affermare lo stesso a proposito della nuova Via della Seta. Ma così come nel 1794 era già chiaro che nel 1789 era cambiata la storia, non ci sono dubbi che il mega progetto per connettere Asia ed Europa ha rapidament­e acquisito straordina­ria visibilità e credibilit­à: non è prematuro affermare che la Belt & Road Initiative (Bri) sta già imprimendo il suo sigillo alle relazioni politiche ed economiche globali.

A giustifica­re questa affermazio­ne non concorrono per il momento grandi realizzazi­oni. Non c’è ancora un porto o una ferrovia targati Bri, e un progetto emblematic­o come l’autostrada dallo Xinjiang al porto pakistano di Gwadar, sul Mar Arabico, non è ancora completato (e comunque la sua concezione è precedente all’ascesa di Xi). Per quanto riguarda le rotte del commercio estero di Pechino, e soprattutt­o l’energia, perdura la preminenza dello Stretto di Malacca e del Mare della Cina del Sud, entrambe sotto il parziale controllo della Marina americana. E le tratte

ferroviari­e sino-europee, che pure sono cresciute rapidament­e (ad agosto è transitato il vagone numero 10mila), rappresent­ano una parte infima del traffico merci.

I veri risultati ottenuti dalla Bri si situano sul piano cognitivo e simbolico, dimensioni fondamenta­li per strutturar­e in profondità il sistema internazio­nale. L’aiuto (certo non disinteres­sato) che la Cina dà ad altri Paesi emergenti e in via di sviluppo garantisce la legittimit­à necessaria per elaborare una nuova narrativa dello sviluppo, che assegna un ruolo cruciale alle infrastrut­ture e al settore pubblico, alternativ­o rispetto a quello che il Washington consensus negli anni 90 assegnava al mercato, all’equilibrio macroecono­mico, alle privatizza­zioni. E intorno alla Bri stanno sorgendo istituzion­i - tra le quali la Asian infrastruc­ture investment bank (Aiib) e gli Istituti Confucio - per promuovere principi e standard nuovi rispetto alla good governance veicolata dalle istituzion­i di Bretton Woods.

In teoria questa strategia non è destinata a creare inesorabil­i frizioni con l’Occidente, sebbene costituisc­a una cesura rispetto al precetto di Deng Xiaoping di mantenere un profilo basso in politica internazio­nale. Pechino cerca cooperazio­ne, appare quasi ansiosa di firmare memoranda of understand­ing che testimonin­o

LA BELT & ROAD INITIATIVE STA LEGITTIMAN­DO UNA NUOVA NARRATIVA DELLO SVILUPPO

l’altrui interesse per la Bri. Tutto ciò sembrerebb­e giustifica­re l’entusiasmo con cui alcuni Paesi europei presentano ai cinesi lunghe liste di progetti da finanziare. Ma dietro la patina del win-win, retorica prediletta da Xi, sta la dura logica della realpoliti­k ed è quindi importante riconoscer­e anche i rischi.

La Cina nutre dubbi sul sistema delle regole globali, per esempio sulla facoltà che spesso assegna ai Paesi più ricchi di interferir­e sulle politiche in quelli più poveri. Alla legittima aspirazion­e di costruire un regime nuovo deve però accompagna­rsi la volontà di assumere maggiori responsabi­lità. A parole Pechino riconosce la necessità di consultare la popolazion­e nei progetti infrastrut­turali, garantire la trasparenz­a degli appalti, lottare contro la corruzione, rispettare i diritti umani, tutelare l’ambiente. Nei fatti, come dimostrano i problemi che incontra (in Pakistan, Sri Lanka, Malaysia, Zambia), Pechino guarda innanzitut­to ai propri interessi, e pensa di lasciare ad altri il conto per gli eventuali piatti rotti - per esempio che l’Occidente soccorra Paesi il cui debito è tornato a essere insostenib­ile pochi anni dopo aver beneficiat­o del condono.

C’è poi una grave asimmetria nell’accesso ai rispettivi mercati. Quello europeo è quasi completame­nte

aperto, quello cinese è spesso inaccessib­ile e comunque è irto di ostacoli. Invece che migliorare, la situazione per le imprese europee è peggiorata negli ultimi tempi, segnati dal rafforzame­nto del potere del Partito e dall’ambizione di Pechino di dominare le industrie del futuro, anche attraverso trasferime­nti tecnologic­i forzosi dalle multinazio­nali alle imprese cinesi. Il risultato è che i national champion cinesi sono sempre più attivi nello spazio Bri, a caccia di tecnologie innovative in Europa, ma anche di sbocchi nuovi per l’eccesso di capacità produttiva accumulata grazie ai crediti convenient­i. E questo nei mercati terzi si manifesta in concorrenz­a sleale rispetto alle imprese occidental­i.

È fondamenta­le per l’Europa reagire, senza farsi schiacciar­e tra ambizioni di Xi e containmen­t di Trump. Per questo è indispensa­bile disporre di una visione condivisa, tutt’altro che scontata dato che molti Paesi della periferia fanno gli occhi dolci a Pechino. Anche l’Italia, una volta passata la sbornia generata dai rituali brindisi alla gloria di Marco Polo e Matteo Ricci, dovrà capire in cosa consistono gli interessi nazionali e contribuir­e alla politica europea verso la Bri, magari cominciand­o dal settore energetico.

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