Ernesto Gismondi, l’ingegnere della luce che ama i missili e «il fare»
A tu per tu. Davanti a caffè e biscotti, Ernesto Gismondi, patron di Artemide, ricorda che da un capitale iniziale di 427mila lire, oggi ha 730 dipendenti e oltre 120 milioni di fatturato. E molti Compassi d’oro, che non bastano mai
AVERE DELLE
IDEE OGGI È IL MINIMO, È PIÙ
IMPORTANTE SAPERE SE SONO QUELLE GIUSTE
Con la luce si possono proiettare storie, inventare favole, scrivere trame, far vivere personaggi su uno schermo bianco. La luce è la materia e la sostanza delle immagini. Mi avvio a incontrare Ernesto Gismondi con questo pensiero: suo padre Giacinto, a Sanremo, era proprietario di tre cinematografi, con la luce inventava mondi. Lui invece, dall’età di 28 anni, ha iniziato a produrre lampade che hanno acceso le case e illuminato la realtà quotidiana di milioni di italiani, e poi di tedeschi, francesi, americani, asiatici. Adesso che di anni ne ha quasi 87, è presidente di un’azienda da 730 dipendenti e 121 milioni di fatturato (il capitale d’investimento iniziale fu di 427mila lire). Sono 15 gli showroom monomarca di proprietà e la distribuzione raggiunge circa cento Paesi.
Trascorrere un’ora intorno a un tavolo, con caffè e biscotti, insieme a Ernesto Gismondi è ripercorrere sessant’anni di design e di imprenditorialità italiana. Come sempre capita a chi ha molto vissuto, la memoria lunga conta più di quella breve. Il passato è presente più del presente stesso. Lo incontro con l’occasione del suo ultimo Compasso d’oro. È l’ottavo, ci avrà fatto l’abitudine ormai. Eppure questo premio è tre volte importante perché è un riconoscimento all’oggetto progettato, la lampada Discovery, all’azienda di cui è fondatore, Artemide e alla carriera. Gismondi lo liquida sbrigativamente: «Ce ne fossero altri ancora... No, non ci si abitua e non sono mai troppi».
Gli interessa parlare d’altro, dei suoi primi anni di attività, di quando faceva l’ingegnere e si occupava di missili. «Mi faccia spiegare questo e poi posso anche non parlare più!». Lo dice sottovoce, concentrato. Davanti ha una risma di fogli, è leggermente scomposta. Mentre spiega, con gesti lenti e meticolosi, la riallinea. Non prende una penna o una matita, come ci si potrebbe aspettare da chi progetta col disegno, ma una tazza e un cucchiaio. «Supponiamo che questo sia un satellite che deve restare regolarmente nello spazio e questo il suo motore. Se gli dai la giusta spinta, è un giochetto da ridere. Progettare e sperimentare propulsori a propellenti liquidi e solidi: è questo che facevamo. Ognuno deve scegliere come campare nella vita. Io mi sono innamorato dei missili. Perché, non dovevo? Ho studiato Ingegneria aeronautica a Milano e poi Ingegneria missilistica a Roma. Mi chiamò il professor Corrado Casci, lavorammo insieme per la Nasa. E ci siamo divertiti, in tanti». Di missili ha continuato a parlare per vent’anni, insegnando al Politecnico, dal 1964 al 1984 («Non sono mai stato severo, ho sempre seguito gli studenti con affetto»). Di aerei ha continuato ad appassionarsi al cinema: «Forse per questo non mi sono mai perso un film storico, specie sulla prima e sulla seconda guerra mondiale. Riconosco tutti i modelli». Che c’entra tutto questo con la luce? «Mentre studiavo a Roma, mi è venuta voglia di fare qualcosa in proprio. Ho incontrato Sergio Mazza, che era un architetto. In quel periodo c’era un grande fermento a Milano, il mondo del design e della luce stavano nascendo. Abbiamo deciso di fare lampade insieme. Perché no? Era qualcosa che non richiedeva troppi investimenti, almeno per partire. Una settimana dopo averne parlato, eravamo dal notaio e nasceva Artemide». Un nome mitologico, perché l’ingegnere, come tutti chiamano il patron di Artemide, ha fatto il liceo classico e, per anni, ogni lampada che è uscita dalla sua fabbrica si è chiamata con nomi di origine greca. Prima ci sono state Alfa, Beta, Gamma fino all’Omega di Vico Magistretti, ma anche Polluce, Giocasta, Patroclo, Callimaco, Nestore e la Tolomeo di Michele De Lucchi, a oggi ancora il prodotto più venduto e diffuso, oltre che uno dei primi prodotti totalmente monomaterici ed ecologici. «Ogni anno facevo una lista di nomi, e Tolomeo ci sembrò il personaggio più adatto a rappresentare questa lampada a braccio mobile ed estensibile, perché era un astronomo, un matematico, insomma quello più adatto all’idea di una mentalità scientifica».
Artemide invece è la dea della caccia e della luce lunare. «Sì, e soprattutto comincia con la A. La verità è che, quando ci volle un logo, sapendo da Sergio Mazza che già c’era un’azienda che si chiamava Azucena, scegliemmo un nome che nell’elenco del telefono venisse prima!». L’ironia più è affilata e più prende distacco dalle storie importanti come dai successi. Gismondi torna sempre al punto e, se può, risponde con una battuta. Così, anche quando sembra distrarsi, finisce quel che aveva cominciato: «Comunque, all’inizio, io avevo pensato di fare un’azienda per produrre pezzi di missile. Un missile intero costava troppo».
È stato nominato Cavaliere del lavoro dal presidente Giorgio Napolitano, ma il riconoscimento che gli sta più a cuore è l’European Design Prize, vinto nel 1997. «Sono un grande fautore dell’Europa e dell’importanza dell’Italia nell’Unione. Non mi scopro europeista adesso, lo sono da più di vent’anni». Forse per questo il gruppo non si è mai spostato da Pregnana Milanese, la sede dove tutto è cominciato, anche se ormai opera attraverso 18 società controllate e con cinque unità produttive in Italia, Francia, Ungheria e Canada, una vetreria e una struttura di ricerca e innovazione supportata da laboratori di prototipazione e test. «Con i tempi che corrono, avere delle idee è il minimo. Il problema non è avere idee buone, ma sapere se le idee sono quelle giuste. Costruire, realizzare la fabbrica è stata una grande soddisfazione, ma si fa una volta sola! Invece con i prodotti posso continuamente pensare a qualcosa di nuovo e diverso, trasformare ogni giorno un’idea in qualcosa di reale».
Non è difficile lavorare in Italia? «Diciamo che, se vuoi fare un lavoro seriamente, si può fare. Non perdere tempo, non stare a lamentarti, pensa a fare come si deve. Non serve altro». Il verbo “fare” ricorre decine di volte. Che sia il “fare” di quando papà Giacinto gli dava da attaccare le migliori locandine dei film per vincere la concorrenza dell’unico altro cinema di Sanremo; che sia il “fare” con Vico Magistretti («con lui andavamo anche tanto a cena!»), Gio Ponti («fantastico»), Gae Aulenti, Richard Sapper; che sia il “fare” condiviso con Carlotta de Bevilacqua, architetto, imprenditrice, designer, la donna che gli ha fatto perdere la testa più di 30 anni fa, a cui ha spedito 200 rose dopo averla incontrata la prima volta alla Triennale di Milano. La donna da cui non si separa mai, neanche adesso, tanto che contrappunta i suoi racconti di precisazioni e ricordi condivisi. «Digli di quella volta che Vico Magistretti ha rotto il cambio della macchina perché si è distratto a fare uno schizzo...». «E quella volta che ti ha telefonato Sapper per comunicarti che aveva disegnato qualcosa che rispondeva alla tua idea di funzionalità innovativa». Era la Tizio, una delle prime lampade a utilizzare un’alogena a basso consumo.
È ancora su sollecitazione della moglie che Gismondi racconta della palazzina costruita nel 1986: «È il nostro centro di Innovazione, dove investiamo il 5% del fatturato» («ed è dedicato a suo papà Giacinto», interviene ancora Carlotta). «Tanti i brevetti di invenzione riconosciuti in questi anni per le innovazioni tecnologiche, meccaniche e optoelettroniche. La nostra è ricerca applicata. La fotonica porta segnali, dati, crea sicurezza. Siamo passati dal regno elettrico al campo dell’elettronica, le lampade sono diventate intelligenti. D’altronde la luce è una forma di energia, proprio come quella che spingeva i miei missili».
Un fenomeno fisico invisibile che rende visibile lo spazio. Cangiante, come il mondo su cui si posa. Un po’ come l’ultima creatura di Gismondi, la Discovery: un anello metallico sottile che pare circoscrivere il vuoto. Schiacci l’interruttore e diventa un disco pieno, luminescente, un tondo di fibre ottiche che apre il soffitto sul cielo. Fra Giacinto che proiettava sogni sul grande schermo ed Ernesto che produce lampade, le distanze si stanno sempre più accorciando. Accendi la Discovery e ti viene in mente Le voyage dans la Lune di Georges Méliès: era inizio Novecento e il cinema muoveva i primi passi grazie ai fratelli Lumière.