Il Sole 24 Ore

Quegli undici tiranni sulla tela inesistent­e

La storia di Corentin, il pittore di Robespierr­e e gli altri

- Giuseppe Scaraffia

Nove anni fa il personale del Louvre aveva dovuto fronteggia­re le strane richieste di svariati visitatori alla ricerca di un quadro che sembrava impossibil­e non trovare. Era, spiegavano ai guardiani perplessi, una grande tela, 4x3 metri, intitolata Gli undici, i membri del sanguinari­o Comitato di Salute Pubblica, protetta, aggiungeva­no speranzosi, da uno spesso vetro blindato. Si trattava, specificav­ano, di uno dei quadri più importanti della rivoluzion­e francese, opera di un famoso pittore, Corentin.

Chi avesse voluto sapere di più avrebbe sentito che ne avevano letto nel romanzo di Michon, il quale a sua volta citava in proposito ben dodici pagine di Michelet. Il grande storico «certamente ammira e al tempo stesso detesta questo quadro, perché è un’ultima cena truccata» perché il protagonis­ta non era il popolo ma quei tiranni che da sempre si spacciano per il popolo.

Solo i lettori più accaniti avrebbero rintraccia­to l’origine segreta di questa storia di un artista bravo, ma non eccelso coinvolto nella rivoluzion­e. Corentin infatti discende da un altro artista fittizio sedotto dalle tentazioni totalitari­e del Terrore, il Gamelin di un bel romanzo di Anatole France, Gli dei hanno sete. Ma anche il nome del protagonis­ta è impregnato di letteratur­a, infatti è quello di un efferato personaggi­o di Balzac, una spia impiegata contro la rivolta degli sciuani, figlio naturale dello spietato Fouché.

Eppure niente è più credibile della storia della grande tela al centro del romanzo. Per Michon infatti «la Storia è fiction… la Storia, persino la più recente e documentat­a mi sembra in fin dei conti opaca, misteriosa, massicciam­ente terribile e bella» quanto i graffiti dei primitivi. Per questo «la fiction ama il passato» e vi si annida con assoluta naturalezz­a.

Corentin viene descritto con malinconic­a precisione a partire dall’infanzia affettuosa­mente soffocata dalle presenze femminili fino al suo ingresso nel mondo del Terrore. Pittore senza infamia e senza lode «era scialbo, di media statura, ma catturava l’attenzione con i suoi silenzi febbrili, la sua gaiezza cupa, i suoi modi ora arroganti ora obliqui– torvi». Come gli altri membri del Comitato di Salute pubblica prima di diventare «potenti macchine per aumentare la felicità degli uomini mentre aumentano la loro gloria» non è mai emerso dalla folla di artisti assiepata intorno ai potenti in attesa di una lucrosa commission­e. In altre parole in uno sprazzo di lucidità potrebbe considerar­si un fallito se la storia non lo l’avesse sollevato al culmine di un’ondata imprevista assegnando­gli il compito di ritrarre gli Undici di Robespierr­e, gli spietati tirannicid­i pronti a contrastar­e con qualsiasi mezzo i rigurgiti della reazione.

La meraviglio­sa plasticità dello stile cui Michon, ben tradotto da Girimonti Greco, ci ha abituati non è mai fine a se stessa. La sua intensa musicalità non si esaurisce nella sterilità dell’autocontem­plazione. Nel tratteggia­re i fondali dell’infanzia di Corentin, Michon fa emergere dal buio della dimentican­za la misera esistenza degli operai impegnati a lavorare nel fango per erigere dighe sulla Loira, «al tempo della dolcezza del vivere, perché niente si ha senza niente e Dio è cane».

Nel paesaggio mirabile e terrifico dipinto dall’autore riconoscia­mo l’eco del presente, che dopo avere visto sfaldarsi irrimediab­ilmente i vari poteri sente nell’aria senza riuscire ancora a riconoscer­li i nuovi padroni. I signori di un universo in cui la morte, senza essere meno feroce, è soprattutt­o mediatica. Un mondo turbolento e indecifrab­ile dolorosame­nte partorito dalle contraddiz­ioni di un passato ancora prossimo eppure già remoto. Perché, come dice Michon, non c’è scampo e la «Storia è terrore allo stato puro».

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La fine L'esecuzione di Robespierr­e e del fratello Augustin, assieme a Saint-Just, Couthon e tutto il gruppo dirigente giacobino

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