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Ormai vandalizzate all’interno e in gran parte spogliate del loro rivestimento scintillante, le protuberanze quasi barocche dell’enorme monumento sulle alture di Petrova Gora – cento chilometri a sud di Zagabria – non comunicano più l’eroica insurrezione del popolo contro il nazifascismo, ma piuttosto la disintegrazione dell’esperimento politico che cambiò faccia ai Balcani. Tra il 1948, quando divorziò dallo stalinismo, e il 1980, data della sua morte, il maresciallo Tito cercò di plasmare in Jugoslavia una società alternativa ai due lati della cortina di ferro, utilizzando carisma, pugno di ferro e – da non sottovalutare – la potenza di originali linguaggi architettonici, oggi celebrati al MoMA di New York nella mostra Towards a Concrete Utopia: Architecture in Yugoslavia, 1948-1980, curata da Martino Stierli e Vladimir Kulić.
Il nuovo stato, liberato dagli invasori, dalla monarchia e dall’ingerenza sovietica, aveva bisogno di tutto: nuove città, spazi pubblici, inedite tipologie e scenografie capaci di tenere insieme le differenze etniche e religiose di sei repubbliche e due province. Il divorzio con Mosca esentò gli architetti dal realismo socialista e li spinse verso l’architettura moderna: in primis Le Corbusier, la cui architettura, definita «borghese» negli anni di allineamento con l’URSS, divenne invece un modello. La sua Unité d’habitation di Marsiglia fu riprodotta a Belgrado, Lubiana e Zagabria come prototipo di abitare comunitario. Lecorbusieriana è anche la sede del Consiglio Federale nella Nuova Belgrado, con flessuose superfici in cemento su esili pilastri; all’interno però, sei saloni – uno per ogni repubblica – sfoggiavano stili dal vernacolare all’astratto, offrendo la metafora della «terza via» scelta da Tito, in equilibrio tra multiculturalismo e culto della patria, democrazia diretta e partito unico, autogestione dei lavoratori e polizia segreta. Tale ambivalenza si trova nelle tante fusioni tra moderno e regionale: in Bosnia, ad esempio, l’architettura ottomana tradizionale fu scelta come base ideale per un modernismo bosniaco.
Il caso di Skopje rivela i benefici dell’apertura al mondo. Colpita nel 1963 da un terremoto, la capitale della Macedonia divenne un terreno di sperimentazione internazionale: il nuovo masterplan fu greco-polacco; il giapponese Kenzo Tange progettò la ricostruzione del centro storico; gli Stati Uniti invitarono giovani architetti macedoni a studiare oltre oceano, ottenendo un’influenza più sottile. L’impronta del brutalismo americano giunse infatti tramite figure quali Georgi Konstantinovski, che studiò a Yale con Paul Rudolph. Anche il MoMA partecipò al tentativo di colonizzazione culturale: nel 1956 arrivò a Belgrado la mostra Modern Art in the United States, con le architetture di Mies, Wright, Philip Johnson e altri, preannunciando l’avvento di pareti e facciate vetrate nel panorama edilizio dei Balcani. Ma la Jugoslavia non si limitò a ricevere, dato che il suo ruolo nel Movimento dei paesi non allineati la collocò al centro di un altro mondo, come dimostrano i piani della società statale Energoprojekt in Nigeria.
Attraverso grandi fotografie, modellini, filmati e 400 disegni, molti dei quali scampati alle guerre, la mostra fa emergere – in un allestimento forse un po’ asettico – tanti altri temi: il ruolo del turismo (con le sue architetture) e dei memoriali nel processo di creazione di un paesaggio e di un passato condivisi; la sperimentazione ingegneristica (a Belgrado nel 1957 fu eretta la cupola in cemento più grande al mondo); l’interazione culturale grazie ai concorsi d’architettura; il «lato consumistico» del socialismo jugoslavo nel design degli oggetti quotidiani.
Dall’Europa, la «scoperta» del MoMA appare di certo relativa: da tempo studiosi balcanici e non, alcuni coinvolti nello show newyorkese, raccontano il valore di queste architetture. Dall’America, il MoMA punta dunque a ufficializzare la rivelazione storiografica, nonché – in una prospettiva di global history – a continuare l’esplorazione delle capitali periferiche dell’architettura moderna: nel 2015 era stata la volta del continente sudamericano. Qualche altra riflessione si fa strada. Va constatato, ad esempio, il feticismo che negli ultimi anni ha interessato il «brutalismo», ampia etichetta in cui si fa talvolta confluire qualsiasi stravaganza cementizia, producendo diversi libri illustrati e blog a tema. Se al MoMA è chiaro il movente scientifico, altre rappresentazioni di questo «genere» rincorrono la drammatizzazione del casermone o della rovina (il cosiddetto ruin porn), evocando un sublime architettonico che affascina ma limita il significato e le ragioni costituenti di quegli edifici. Alcune delle fotografie dello svizzero Valentin Jeck, scattate per la mostra e peraltro molto belle, lambiscono questo discorso, enfatizzando cieli turbolenti, tinte metalliche e prospettive piranesiane prive di vita.
In termini più generali, la mostra stimola poi un ragionamento sul grado di autonomia che l’architettura possiede rispetto alla sua cornice politico-sociale, tema che in Italia conosciamo bene. Un anno fa, sul New Yorker, la studiosa Ruth Ben-Ghiat si chiedeva – in un articolo molto dibattuto – come mai in Italia siano sopravvissuti così tanti monumenti al fascismo, paventando il loro utilizzo da parte della destra estrema, perché oggi trattati come «semplici oggetti estetici non politicizzati». Quello che ci possiamo augurare per le utopie di cemento dell’ex-Jugoslavia, molte già distrutte perché «comuniste», è un futuro diverso dall’oblio. Meglio una consapevole lettura del passato basata sulla memoria e un riutilizzo critico del patrimonio architettonico, piuttosto che l’iconoclastia o, all’opposto, la «Ostalgia», ossia il rimpianto sentimentale dei tempi della DDR. Speriamo che la mostra al MoMA possa contribuire a questo obiettivo, non solo per il Monumento di Petrova Gora, che cade a pezzi, ma anche per Skopje, il cui cosmopolitismo architettonico è stato di recente deturpato nel nome dell’identità nazionale.