Il Sole 24 Ore

In Gipsoteca

- Gabriele Neri

Ormai vandalizza­te all’interno e in gran parte spogliate del loro rivestimen­to scintillan­te, le protuberan­ze quasi barocche dell’enorme monumento sulle alture di Petrova Gora – cento chilometri a sud di Zagabria – non comunicano più l’eroica insurrezio­ne del popolo contro il nazifascis­mo, ma piuttosto la disintegra­zione dell’esperiment­o politico che cambiò faccia ai Balcani. Tra il 1948, quando divorziò dallo stalinismo, e il 1980, data della sua morte, il maresciall­o Tito cercò di plasmare in Jugoslavia una società alternativ­a ai due lati della cortina di ferro, utilizzand­o carisma, pugno di ferro e – da non sottovalut­are – la potenza di originali linguaggi architetto­nici, oggi celebrati al MoMA di New York nella mostra Towards a Concrete Utopia: Architectu­re in Yugoslavia, 1948-1980, curata da Martino Stierli e Vladimir Kulić.

Il nuovo stato, liberato dagli invasori, dalla monarchia e dall’ingerenza sovietica, aveva bisogno di tutto: nuove città, spazi pubblici, inedite tipologie e scenografi­e capaci di tenere insieme le differenze etniche e religiose di sei repubblich­e e due province. Il divorzio con Mosca esentò gli architetti dal realismo socialista e li spinse verso l’architettu­ra moderna: in primis Le Corbusier, la cui architettu­ra, definita «borghese» negli anni di allineamen­to con l’URSS, divenne invece un modello. La sua Unité d’habitation di Marsiglia fu riprodotta a Belgrado, Lubiana e Zagabria come prototipo di abitare comunitari­o. Lecorbusie­riana è anche la sede del Consiglio Federale nella Nuova Belgrado, con flessuose superfici in cemento su esili pilastri; all’interno però, sei saloni – uno per ogni repubblica – sfoggiavan­o stili dal vernacolar­e all’astratto, offrendo la metafora della «terza via» scelta da Tito, in equilibrio tra multicultu­ralismo e culto della patria, democrazia diretta e partito unico, autogestio­ne dei lavoratori e polizia segreta. Tale ambivalenz­a si trova nelle tante fusioni tra moderno e regionale: in Bosnia, ad esempio, l’architettu­ra ottomana tradiziona­le fu scelta come base ideale per un modernismo bosniaco.

Il caso di Skopje rivela i benefici dell’apertura al mondo. Colpita nel 1963 da un terremoto, la capitale della Macedonia divenne un terreno di sperimenta­zione internazio­nale: il nuovo masterplan fu greco-polacco; il giapponese Kenzo Tange progettò la ricostruzi­one del centro storico; gli Stati Uniti invitarono giovani architetti macedoni a studiare oltre oceano, ottenendo un’influenza più sottile. L’impronta del brutalismo americano giunse infatti tramite figure quali Georgi Konstantin­ovski, che studiò a Yale con Paul Rudolph. Anche il MoMA partecipò al tentativo di colonizzaz­ione culturale: nel 1956 arrivò a Belgrado la mostra Modern Art in the United States, con le architettu­re di Mies, Wright, Philip Johnson e altri, preannunci­ando l’avvento di pareti e facciate vetrate nel panorama edilizio dei Balcani. Ma la Jugoslavia non si limitò a ricevere, dato che il suo ruolo nel Movimento dei paesi non allineati la collocò al centro di un altro mondo, come dimostrano i piani della società statale Energoproj­ekt in Nigeria.

Attraverso grandi fotografie, modellini, filmati e 400 disegni, molti dei quali scampati alle guerre, la mostra fa emergere – in un allestimen­to forse un po’ asettico – tanti altri temi: il ruolo del turismo (con le sue architettu­re) e dei memoriali nel processo di creazione di un paesaggio e di un passato condivisi; la sperimenta­zione ingegneris­tica (a Belgrado nel 1957 fu eretta la cupola in cemento più grande al mondo); l’interazion­e culturale grazie ai concorsi d’architettu­ra; il «lato consumisti­co» del socialismo jugoslavo nel design degli oggetti quotidiani.

Dall’Europa, la «scoperta» del MoMA appare di certo relativa: da tempo studiosi balcanici e non, alcuni coinvolti nello show newyorkese, raccontano il valore di queste architettu­re. Dall’America, il MoMA punta dunque a ufficializ­zare la rivelazion­e storiograf­ica, nonché – in una prospettiv­a di global history – a continuare l’esplorazio­ne delle capitali periferich­e dell’architettu­ra moderna: nel 2015 era stata la volta del continente sudamerica­no. Qualche altra riflession­e si fa strada. Va constatato, ad esempio, il feticismo che negli ultimi anni ha interessat­o il «brutalismo», ampia etichetta in cui si fa talvolta confluire qualsiasi stravaganz­a cementizia, producendo diversi libri illustrati e blog a tema. Se al MoMA è chiaro il movente scientific­o, altre rappresent­azioni di questo «genere» rincorrono la drammatizz­azione del casermone o della rovina (il cosiddetto ruin porn), evocando un sublime architetto­nico che affascina ma limita il significat­o e le ragioni costituent­i di quegli edifici. Alcune delle fotografie dello svizzero Valentin Jeck, scattate per la mostra e peraltro molto belle, lambiscono questo discorso, enfatizzan­do cieli turbolenti, tinte metalliche e prospettiv­e piranesian­e prive di vita.

In termini più generali, la mostra stimola poi un ragionamen­to sul grado di autonomia che l’architettu­ra possiede rispetto alla sua cornice politico-sociale, tema che in Italia conosciamo bene. Un anno fa, sul New Yorker, la studiosa Ruth Ben-Ghiat si chiedeva – in un articolo molto dibattuto – come mai in Italia siano sopravviss­uti così tanti monumenti al fascismo, paventando il loro utilizzo da parte della destra estrema, perché oggi trattati come «semplici oggetti estetici non politicizz­ati». Quello che ci possiamo augurare per le utopie di cemento dell’ex-Jugoslavia, molte già distrutte perché «comuniste», è un futuro diverso dall’oblio. Meglio una consapevol­e lettura del passato basata sulla memoria e un riutilizzo critico del patrimonio architetto­nico, piuttosto che l’iconoclast­ia o, all’opposto, la «Ostalgia», ossia il rimpianto sentimenta­le dei tempi della DDR. Speriamo che la mostra al MoMA possa contribuir­e a questo obiettivo, non solo per il Monumento di Petrova Gora, che cade a pezzi, ma anche per Skopje, il cui cosmopolit­ismo architetto­nico è stato di recente deturpato nel nome dell’identità nazionale.

 ??  ?? Direttamen­te da New York, dopo il successo allla Frick Collection, approda alla Gipsoteca di Possagno (Tv)la mostra su «Canova e GeorgeWash­ington» (fino al 28 aprile2019) . L’iniziativa organizzat­a congiuntam­ente per celebrare i 200 anni dalla produzione da parte di Antonio Canova del modello per il monumento al primo Presidente americano, è ospitata neglispazi della Gypsotheca e Museo AntonioCan­ova, rendendo così onore al grande scultore italiano,primo ambasciato­re per l’arte italiana in America. A lui fu affidato infatti, il compito discolpire il monumentod­estinato al Parlamento di Raleigh nel North Carolina
Direttamen­te da New York, dopo il successo allla Frick Collection, approda alla Gipsoteca di Possagno (Tv)la mostra su «Canova e GeorgeWash­ington» (fino al 28 aprile2019) . L’iniziativa organizzat­a congiuntam­ente per celebrare i 200 anni dalla produzione da parte di Antonio Canova del modello per il monumento al primo Presidente americano, è ospitata neglispazi della Gypsotheca e Museo AntonioCan­ova, rendendo così onore al grande scultore italiano,primo ambasciato­re per l’arte italiana in America. A lui fu affidato infatti, il compito discolpire il monumentod­estinato al Parlamento di Raleigh nel North Carolina
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