Gli istituti adeguano i prezzi ai rincari della materia prima
La riduzione degli impieghi serve anche ad aumentare il patrimonio di vigilanza
Qualcuno ha già cominciato a farlo in maniera graduale, qualcun altro si sta organizzando. Resta il fatto che un po’ tutte le banche italiane da settimane sono alle prese con il tema del riprezzamento degli impieghi, termine tecnico che vuol dire una cosa sola: aumentare il costo dei prestiti a imprese e famiglie per compensare il maggior costo atteso della raccolta. Un po’ un paradosso, se si considera che i tassi Bce continuano a rimanere su livelli rasoterra, con un Euribor a 3 mesi oramai fermo a quota -0,32%. Ma anche questo è l’effetto collaterale di uno spread tra BTp e Bund che da mesi continua a permanere su livelli doppi rispetto a quelli di maggio. E di come questo maggior rischio percepito si rifletta in un maggior costo atteso della raccolta soprattutto sul fronte istituzionale. Un canale, quello dei bond, che oggi vale “solo” il 15,5% della raccolta, e che al momento di fatto è sostanzialmente congelato proprio per i costi eccessivi che avrebbero le emissioni. Tuttavia le banche stanno iniziando a rincarare i prezzi degli impieghi per compensare già ora i costi che inevitabilmente dovranno sostenere per le future emissioni.
Le indicazioni che arrivano dai banchieri sono chiare. Intesa Sanpaolo, la principale banca italiana, è nel pieno del processo di «repricing del suo loan book» e gli effetti «saranno visibili nei prossimi trimestri», ha detto il ceo Carlo Messina la scorsa settimana. Parole che ritornano anche in casa UniCredit, che a sua volta sta «cominciando il repricing sul mercato degli impieghi in Italia», ha sottolineato il cfo Mirko Bianchi durante la presentazione dei conti. Sulla stessa linea d’onda è anche Victor Massiah, di Ubi Banca. Che ha messo in chiaro come la componente di riprezzamento degli impieghi «deve ancora essere “messa a terra” fino in fondo», ma il lavoro è «in corso» ed è «iniziato da luglio».
Sia chiaro. L’operazione non è massiccia, ed è effettuata in maniera graduale. Le banche del resto sono pur sempre in competizione continua, anche alla luce del costo minimo del denaro. E un movimento anche minimo al rialzo rischia di rendere l’offerta meno competitiva rispetto ai concorrenti. Il dato certo, però, è che se la “materia prima” aumenta il suo costo, come sta accadendo in termini medi, e se il profilo di rischio del paese e degli istituti aumenta, le banche non possono fare altro che riportare il prezzo degli impieghi a livelli coerenti con il nuovo contesto operativo.
Accanto all’aumento del costo degli impieghi, c’è poi un altro fenomeno in atto, che è quello della riduzione del perimetro dei prestiti. Effetto, questo, che riguarda alcune banche e che è legato al progressivo derisking di portafoglio. Bper, ad esempio, nei primi nove mesi dell’anno ha ridotto del 4% gli impieghi lordi, passando da 52,9 miliardi a 50,7 miliardi. Dal perimetro sono usciti in particolare crediti deteriorati per 2 miliardi circa (-16,5%) ma a ridursi è stato anche lo stock dei crediti performing, scesi dell’ 1%.Ub ida parte sua ha ridotto gli impieghi netti in bonis di circa 1 miliardo, a 83,2 miliardi di euro rispetto a giugno 2018,« soprattutto per effetto di una politica di salvaguardia degli spread ». Diminuendo il denominatore nel rapporto tra capitale e impieghi, le banche riescono a riportare in alto il Cet 1 ratio, e a compensare, almeno in parte, la perdita sul capitale legata al deprezzamento dei Btp in portafoglio.