Il Sole 24 Ore

IL BIVIO DELL’ITALIA E IL RISCHIO DI FARE DISASTRI PIÙ CHE MIRACOLI

- di Paolo Gentiloni

Lungo la strada del risanament­o e della ripresa economica, tra il 2013 e il 2017 l’Italia si è trovata ripetutame­nte di fronte a un bivio. Almeno un paio di volte all’anno. Semplifica­ndo al massimo, si è trattato di scegliere tra due opzioni. La prima: cercare una scorciatoi­a per le politiche per la crescita, ignorando le regole europee sul percorso di riduzione del deficit e scommetten­do che, grazie a quella scorciatoi­a, la crescita avrebbe beneficiat­o di tassi più elevati e sufficient­i a non aumentare ulteriorme­nte il debito. La seconda: stare dentro il percorso indicato dalle regole europee, dando a questo percorso l’interpreta­zione originaria («patto di stabilità e crescita») e ottenendo significat­ivi margini di flessibili­tà grazie alla credibilit­à del governo e delle sue riforme.

Com’è noto, i nostri governi hanno sempre scelto la seconda strada. Non senza discussion­i, naturalmen­te. Discussion­i permanenti con Bruxelles sui margini di flessibili­tà disponibil­i, e discussion­i frequenti nel governo e nella maggioranz­a, dove la linea favorevole a forzare i limiti europei, fino al 3 per cento di Maastricht, si è tra l’altro affacciata anche nel Pd negli ultimi mesi della legislatur­a.

Ora chiunque abbia conoscenza del bilancio e dei suoi vincoli non fatica a immaginare quali e quanti impieghi virtuosi possa avere una ventina di miliardi aggiuntivi. E non è difficile sostenere che usandoli, non per un diluvio di nuove spese o per improbabil­i libri dei sogni ma per fini di sviluppo, si potrebbe anche tentare di produrre una scossa positiva con conseguent­e accelerazi­one della crescita, stabilità del debito e rientro del deficit nelle regole europee nel volgere di due o tre anni. Tra l’altro, non mancavano progetti ambiziosi, legati a un accresciut­o volume di cessioni di partecipaz­ioni dei grandi gruppi pubblici alla Cassa depositi e prestiti, che avrebbero forse consentito maggiori volumi di spesa per la crescita senza incidere troppo su debito e deficit. Ma questi progetti - nome in codice Capricorn - non hanno mai trovato il momento e il clima politico giusto per decollare.

La linea della «scossa per la crescita» non era insomma priva di senso e di qualche sostenitor­e. Eppure io sono fermamente convinto che la strada del rispetto delle regole, magari per cambiarle, e della contrattaz­ione della flessibili­tà sia stata giusta, come del resto dimostrano i risultati raggiunti. Imboccare l’altra strada sarebbe stato un azzardo inutile e pericoloso per la nostra reputazion­e non tanto a Bruxelles, quanto sui mercati in genere. E i primi mesi di annunci del nuovo esecutivo gialloverd­e hanno ampiamente confermato la consistenz­a di questi pericoli.

Tra le tante buone ragioni, certo non è stata secondaria la spinta che questa impostazio­ne ha dato all’azione riformatri­ce dei nostri governi. Dal mercato del lavoro alla giustizia civile, dalla legge sulla concorrenz­a al diritto fallimenta­re, in tantissimi settori la transazion­e «più flessibili­tà in cambio di più riforme» ha funzionato come una sorta di redivivo vincolo esterno europeo, positivo, in questo caso, nei confronti dell’Italia. Molte di queste riforme

L’EX PREMIER DISTINGUE TRA LE PROMESSE E LA REALTÀ DEI FATTI, SPESSO MOLTO DURA

erano comunque fondative dell’identità dei nostri governi, altre forse non avrebbero avuto l’attenzione o la spinta necessarie senza il concretiss­imo collegamen­to tra Piano nazionale delle riforme e decimali aggiuntivi di flessibili­tà, che è diventato un pilastro dei nostri ultimi Documenti di economia e finanza.

Ma c’è per me una ragione di fondo assai più rilevantea­lla base della linea di politica economica seguita in questi anni. La dico così: mentre è fuor di dubbio che i governi possano arrecare danni o addirittur­a provocare disastri all’economia, non è dimostrato che possano fare miracoli. Possono prometterl­i, ma farli è un’altra storia. E se li prometti senza farli, arrivano i guai. I governi «accompagna­no», e cito qui una delle parole chiave usate in tutti i miei interventi pubblici da presidente del Consiglio. Accompagna­re. Non è la stessa cosa di dirigere, scuotere, rivoluzion­are. I miracoli economici li fanno le imprese, il lavoro, le comunità. La distruzion­e creativa non si impone per decreto. Le rivoluzion­i non sono pane quotidiano. Oggi va di moda piuttosto la teoria economica di chi si affida al nudge, al pungolo. Ma restando in Italia è giusto riconoscer­e che un certo pensiero politico, che anche in stagioni di partiti solidissim­i ha acceso i riflettori sulla forza e l’autonomia della società italiana, dal Censis alla Cisl per capirci, si fondava su ottime ragioni. E queste ragioni mantengono la loro attualità. Nonostante l’ovvio indebolime­nto dei classici corpi intermedi e l’evidente difficoltà della parte più piccola del nostro tessuto produttivo, anche nel nuovo secolo i soggetti prin- cipali dei cambiament­i che hanno rinnovato la competitiv­ità italiana, portandola in qualche caso a primati senza precedenti, sono stati i distretti, le filiere di impresa legate al territorio, le multinazio­nali tascabili, la creatività e il saper fare del lavoro italiano. Un capitalism­o spesso di territorio che ha attraversa­to, cambiando pelle, gli anni della crisi. Che sta investendo sempre più nella dimensione della green economy e della coesione sociale, e così facendo, come ha scritto Aldo Bonomi, consente di pensare il territorio «come la dimensione di un’alleanza tra cura e operosità, per depotenzia­re il rancore».

Non sto ovviamente teorizzand­o l’indifferen­za o addirittur­a l’inutilità dell’intervento pubblico e dell’azione di coordiname­nto e di governo. Al contrario, sono convinto che oggi ci sia più che mai bisogno di politica. Ma questa deve appunto accompagna­re i processi in atto nella società, facilitand­oli, rendendoli più semplici e vantaggios­i, mettendo risorse nei punti giusti. Non deve imporli dall’alto. O incatenarl­i alla burocrazia. Quando il ministero dello Sviluppo economico ha reso automatici alcuni incentivi, sottraendo­li a complicate procedure di assegnazio­ne, non ha abdicato al proprio ruolo di indirizzo della politica industrial­e. Lo ha reso più giusto ed efficiente.

Del resto in gioco, anche in questo caso, c’è un’idea della politica. Che di norma, in un Paese democratic­o e liberale, dovrebbe avere a che fare più con l’arte del ricamo che con la pratica dello strappo. Può apparire un’eresia, al tempo dei social network. Ma le cose stanno così.

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