Il Sole 24 Ore

INVESTIMEN­TI TUTTIINROS­SO, RIMBALZOIN­FORSE

- Di Vito Lops

Il 2018 potrebbe entrare nel guinness dei primati: tutte le principali classi di investimen­to a livello globale (azioni, obbligazio­ni, oro e petrolio) sono in rosso. In questo contesto estrarre valore dai mercati finanziari per un gestore è diventato quasi impossibil­e . Molti risparmiat­ori, scottati, si chiedono ora se ci sarà un recupero a fine anno e come tutelare il portafogli­o da ulteriori ribassi.

Prendiamo per esempio il grido d’allarme sull’aumento dello spread, che farebbe aumentare il costo del finanziame­nto delle imprese e quindi diminuire gli investimen­ti. Le imprese investono perché individuan­o delle opportunit­à di mercato, e lo fanno con un orizzonte temporale di 3-4 anni per “rientrare” dall’investimen­to ma molto più lungo da un punto di vista di dove localizzar­lo in linea con una strategia aziendale che normalment­e è internazio­nale; le attese di rendimento devono esser coerenti con i rischi e il costo del capitale, ma l’aumento dei tassi d’interesse di qualche punto percentual­e normalment­e non cambia la decisione di investire o meno, perché ne allunga sempliceme­nte di qualche mese il payback. La presunta correlazio­ne fra tassi di interesse e propension­e all’investimen­to è una fantasia di economisti, sempre alla ricerca di facili correlazio­ni matematich­e per pubblicare i propri paper o proporre ricette di politica economica.

Un’altra fantasia è quella che migliorand­o la fiscalità le imprese sarebbero incoraggia­te a investire in Italia; dove localizzar­e gli investimen­ti, invece, è funzione di prossimità ai clienti e fornitori, costo e flessibili­tà del lavoro e dimensione aziendale. Per aziende relativame­nte piccole sarebbe giocoforza, per problemi logistici, continuare a investire vicino alla storica sede aziendale anche se la tassazione aumentasse; è sufficient­e però che la dimensione aziendale superi la soglia dei circa 50 milioni di euro di fatturato e diventa convenient­e e possibile delocalizz­are in Romania o Serbia, considerar­e l’apertura di una base operativa negli Usa o a Dubai, e allontanar­si progressiv­amente dall’Italia, ma tali decisioni sono dettate da logiche operative, non fiscali. Per le imprese più grandi spostare la sede all’estero è una scelta logica, come dimostrano i casi Ferrero, Fiat/ Chrysler, Lottomatic­a/Igt, EssilorLux­ottica etc. A parità di risultati aziendali, un’azienda con sede in Germania o Gran Bretagna vale di più di un’azienda italiana che inevitabil­mente subisce un impatto negativo dalla performanc­e e immagine del nostro Paese; per un investitor­e profession­ale questa consideraz­ione è molto importante. Fortunatam­ente ci sono alcune eccezioni, per esempio i settori della moda e design, dove l’italianità è un plus.

Le imprese italiane, inoltre, guardano con ironia i proclami relativi alla necessità di creare lavoro al Sud; ma quale impresa andrebbe mai a produrre lì? Non c’è un vantaggio di costo e flessibili­tà del lavoro comparabil­e a quello dei Paesi dell’Est, la catena logistica si allunga relativame­nte ai mercati di sbocco del Nord Europa e al baricentro dei fornitori, c’è la percezione di una diffusa illegalità, il personale è inamovibil­e, la giustizia è politicizz­ata etc. Inutile fare iniziative per attrarre investimen­ti al Sud; per scoraggiar­li contano molto di più le vicende giudiziari­o/politiche che hanno bloccato l’Ilva, l’estrazione del petrolio in Val d’Agri, il Tap, il rigassific­atore di Bari, etc. Inoltre, in tutto il mondo le aree periferich­e, come il Nord della Svezia o il Sud dell’Italia, la Cina Gianfilipp­o Cuneo è imprendito­re, già responsabi­le di McKinsey e fondatore della Bain, Cuneo e Associati del Nord o Portorico, sono naturalmen­te predestina­te alla deindustri­alizzazion­e e allo spopolamen­to, e non ci sono proclami o politiche nazionali che possano contrastar­e tale tendenza.

Dall’impossibil­ità pratica di investire al Sud e dal peso abnorme del settore pubblico deriva l’impossibil­ità che il Pil dell’Italia cresca; è comprensib­ile che i politici non vogliano guardare in faccia tale incontrove­rtibile realtà poiché dirlo equivale a non esser rieletti, ma le imprese lo sanno benissimo. Le circa 140mila imprese con fatturato fra i 10 e 50 milioni di euro che costituisc­ono il nucleo portante della forza industrial­e italiana e occupano 3,9 milioni di addetti, rappresent­ano solo il 12,5% del Pil (Rapporto Cerved Pmi 2017), percentual­e che cresce fino al 20% circa includendo anche il valore aggiunto realizzato in Italia dalle imprese con fatturato superiore ai 50 milioni. Non si può caricare sulle spalle delle imprese l’onere di far crescere l’economia; in Italia ormai più del 50% del Pil è fatto di spesa pubblica, diretta o indiretta; ovviamente non si può finanziare un aumento del Pil continuand­o a far deficit, nell’illusione che si generi così uno stimolo virtuoso (stimolo a cosa, se non ci sono, soprattutt­o al Sud, le imprese che possono crescere?); il deficit come “droga” non è più consentito dalla dimensione enorme del nostro debito pubblico che è il più grande del mondo fra quelli denominati in una valuta non controllat­a dallo Stato emittente. Le imprese più avvedute partono dalla constatazi­one di non poter contare, per la crescita, di esser trainati dall’economia italiana, e quindi la crescita se la vanno a cercare nel mondo.

Un discorso a parte è quello dei titoli del debito pubblico; le imprese che hanno bisogno di impegnare la liquidità non li comprano di certo perché hanno ben chiaro il rischio di perdita di valore o persino di illiquidit­à collegato con qualche asta andata male. Lasciano quindi l’onere di sostenere il debito pubblico a soggetti obbligati da leggi o regolament­i come banche e fondi pensione.

Infine il tema dell’educazione finanziari­a in Italia; le imprese quotate sono in genere contente che sia praticamen­te inesistent­e perché così chi vuole investire in borsa lo fa in Italia e non all’estero, come sarebbe logico. Fa sorridere l’idea che i politici o persino il governator­e della Banca d’Italia critichino la mancanza di educazione finanziari­a dei risparmiat­ori perché, se ci fosse davvero, il primo a farne le spese sarebbe proprio il debito pubblico italiano che può esser al massimo un investimen­to di “parcheggio temporaneo” della liquidità mentre la percezione diffusa e sbagliata è che sia uno strumento di risparmio di lungo periodo adatto alle famiglie.

L’unico “non problema” per le imprese è, sorpresa!, la burocrazia, che invece i politici additano come causa di molti mali; le imprese ormai hanno imparato a conviverci. Criticare la burocrazia, peraltro giustament­e, ha solo l’effetto di un “mugugno” ma non impatta le decisioni di investimen­to; è un fastidio, come la presenza di zanzare che però non impedisce di andare in vacanza anche dove pullulano.

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GIANFILIPP­OCUNEO Investitor­e profession­ale di private equity

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