Il Sole 24 Ore

Sulla reputazion­e dei brand la grande incognita degli algoritmi

Brand safety/1. Tra le aziende è sempre più sentita l’esigenza di associare la propria marca a un contesto digitale affidabile e coerente evitando connession­i indesidera­te o imbarazzan­ti

- Andrea Biondi

«Prima di un video che faceva vedere il crollo del ponte di Genova appariva la pubblicità di una casa automobili­stica nostra cliente». Il caso portato a esempio da Stefano Cervini – head of business intelligen­ce di Annalect (Omnicom MG) – rappresent­a in pieno il rischio che fa tremare i polsi a investitor­i pubblicita­ri e a operatori di marketing e comunicazi­one soprattutt­o in un mondo amplificat­o da “algoritmi”.

«Prima del video che mostrava il crollo del ponte di Genova appariva la pubblicità di una casa automobili­stica nostra cliente». Il caso portato a esempio da Stefano Cervini – head of business intelligen­ce di Annalect, la divisione di Omnicom Media Group che si occupa di ricerche – rappresent­a in tutta la sua portata il rischio che fa tremare i polsi agli investitor­i pubblicita­ri come agli operatori del mondo del marketing e della comunicazi­one.

Sulla “cura” del marchio sul web, la cosiddetta brand safety, c’è tutto un mondo al lavoro per prendere le misure rispetto a un fenomeno visto anche come opportunit­à – nella misura in cui c’è sempre maggior bisogno della consulenza di esperti e di contesti editoriali di qualità – ma che, è innegabile, al momento rappresent­a soprattutt­o una minaccia. In cui a fare da innesco è l’onnipresen­te “algoritmo”: il motore di quel digital che può portare ad avvicinare in maniera proficua per tutti (investitor­i e publisher) domanda e offerta sul versante della comunicazi­one e dell’engagement, ma che, con il prender piede del programmat­ic e di strumenti automatizz­ati per posizionar­e annunci su siti, ha estremizza­to la disinterme­diazione.

L’automazion­e ha in definitiva la medaglia e il suo rovescio. Il Financial Times di ieri riportava il caso di un dipendente, che martedì scorso, per tre quarti d’ora, ha fatto comparire online un rettangolo giallo al posto dei classici banner pubblicita­ri: uno scherzo costato a Mountain View, 10 milioni di dollari per pagare i siti che hanno ospitato il finto banner pubblicita­rio. Il rischio più grosso però, se si parla di brand safety, si chiama epic fails. Ei dati più disparati invitano a mettersi in guardia. YouGov ad esempio – ed era il 2017 –ha segnalato come negli Usa fra il 20% e il 30% della popolazion­e è portata a ritenere che il posizionam­ento dell’adv rappresent­i una sorta di endorsemen­t per i contenuti informativ­i della pagina.

«È evidente – aggiunge Cervini – che con il programmat­ic c’è stato un salto di qualità rispetto a un problema che prima si declinava esclusivam­ente nelle frodi del traffico non umano, i “bot”, o con le pagine non lette fino alla fine, rendendo vane le campagne. Di certo ora il tema è particolar­mente sensibile. E occorre sedersi a un tavolo per evitare situazioni di chiusura in cui a perdere sarebbero tutti».

Scegliere sapienteme­nte whitelist e blacklist - liste di inclusione o esclusione di siti – è importante, ma senza l’integrazio­ne della tecnologia la questione rimane irrisolta. Allo stesso modo i filtri pre-bid - filtri di targeting utilizzati a monte degli acquisti – vanno ancora affinati. C’è poi chi sarebbe tentato di passare alle estreme conseguenz­e. Ma limitarsi alla re

servation (contatto diretto con l’editore) e abbandonar­e il programmat­ic può in fondo rappresent­are una tattica conservati­va in cui si perde gran parte del potenziale dell’investimen­to pubblicita­rio.

Meglio intervenir­e strategica­mente. «La nostra attività si sviluppa sul piano della consulenza, con la selezione delle piattaform­e per i nostri clienti, ma anche con gli interventi ex post, puntando a rimuovere contenuti dai siti o intervenen­do sull’indicizzaz­ione», spiega Fabio Caporizzi, market leader di Burson Cohn & Wolfe (Bcw), realtà appartenen­te alla galassia Wpp e di cui fa parte GroupM che sul tema ha previsto una figura apicale: l’Evp Brand Safety GroupM Global, John Montgomery.

La tematica della brand safety ha portato a prese di posizione anche abbastanza forti come quella di Unilever (si veda altro articolo in pagina) o P&G nei confronti dei colossi del web: la Google proprietar­ia di Youtube o Facebook. «Publicis Group – spiega Daniela Canegallo, ceo di Msl Group Italia – ha fatto un accordo con Google nel 2017. Noi abbiamo affinato tutta una serie di strumenti di “ascolto” della rete e Google ha fatto un accordo con Publicis Group per meglio tutelare il posizionam­ento delle campagne». Al di là di blacklist o analisi di parole chiave da cui rifuggire, c’è però da fare i conti anche con il post. E lavorare d’anticipo può essere un’arma da non sottovalut­are. «Nel caso di Buondì Motta e della pubblicità dell’asteroide creata da Saatchi e sulla quale abbiamo lavorato – spiega Canegallo – abbiamo fatto un’analisi a priori. La parte critica, come previsto, c’è stata, breve. Ma il cliente ha avuto fiducia e si sono visti i risultati, importanti per la marca».

Eccolo l’altro punto chiave: il rilievo della parte “consulenzi­ale”. «Per realtà come la nostra – afferma Fabio Dotti (EY Yello) – ci sono grandi opportunit­à. C’è un bisogno di strategie media e di pianificaz­ioni “di qualità”, che mettano al riparo le aziende dalle sorprese. Dall’altra parte anche i publisher hanno una grande occasione di evidenziar­e la propria affidabili­tà».

Concorde Emilio Pucci, direttore della società di ricerche e-Media Institute: «Risulta sempre più chiaro anche agli investitor­i pubblicita­ri che nel sistema dello screen content, gli ambienti di consumo governati dagli algoritmi, ma privi di ruoli e funzioni di responsabi­lità editoriale non sono ambienti “sicuri”. L’editore con la sua capacità crea un contesto caratteriz­zato da un patto fiduciario con il proprio utente».

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AFP

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