Sulla reputazione dei brand la grande incognita degli algoritmi
Brand safety/1. Tra le aziende è sempre più sentita l’esigenza di associare la propria marca a un contesto digitale affidabile e coerente evitando connessioni indesiderate o imbarazzanti
«Prima di un video che faceva vedere il crollo del ponte di Genova appariva la pubblicità di una casa automobilistica nostra cliente». Il caso portato a esempio da Stefano Cervini – head of business intelligence di Annalect (Omnicom MG) – rappresenta in pieno il rischio che fa tremare i polsi a investitori pubblicitari e a operatori di marketing e comunicazione soprattutto in un mondo amplificato da “algoritmi”.
«Prima del video che mostrava il crollo del ponte di Genova appariva la pubblicità di una casa automobilistica nostra cliente». Il caso portato a esempio da Stefano Cervini – head of business intelligence di Annalect, la divisione di Omnicom Media Group che si occupa di ricerche – rappresenta in tutta la sua portata il rischio che fa tremare i polsi agli investitori pubblicitari come agli operatori del mondo del marketing e della comunicazione.
Sulla “cura” del marchio sul web, la cosiddetta brand safety, c’è tutto un mondo al lavoro per prendere le misure rispetto a un fenomeno visto anche come opportunità – nella misura in cui c’è sempre maggior bisogno della consulenza di esperti e di contesti editoriali di qualità – ma che, è innegabile, al momento rappresenta soprattutto una minaccia. In cui a fare da innesco è l’onnipresente “algoritmo”: il motore di quel digital che può portare ad avvicinare in maniera proficua per tutti (investitori e publisher) domanda e offerta sul versante della comunicazione e dell’engagement, ma che, con il prender piede del programmatic e di strumenti automatizzati per posizionare annunci su siti, ha estremizzato la disintermediazione.
L’automazione ha in definitiva la medaglia e il suo rovescio. Il Financial Times di ieri riportava il caso di un dipendente, che martedì scorso, per tre quarti d’ora, ha fatto comparire online un rettangolo giallo al posto dei classici banner pubblicitari: uno scherzo costato a Mountain View, 10 milioni di dollari per pagare i siti che hanno ospitato il finto banner pubblicitario. Il rischio più grosso però, se si parla di brand safety, si chiama epic fails. Ei dati più disparati invitano a mettersi in guardia. YouGov ad esempio – ed era il 2017 –ha segnalato come negli Usa fra il 20% e il 30% della popolazione è portata a ritenere che il posizionamento dell’adv rappresenti una sorta di endorsement per i contenuti informativi della pagina.
«È evidente – aggiunge Cervini – che con il programmatic c’è stato un salto di qualità rispetto a un problema che prima si declinava esclusivamente nelle frodi del traffico non umano, i “bot”, o con le pagine non lette fino alla fine, rendendo vane le campagne. Di certo ora il tema è particolarmente sensibile. E occorre sedersi a un tavolo per evitare situazioni di chiusura in cui a perdere sarebbero tutti».
Scegliere sapientemente whitelist e blacklist - liste di inclusione o esclusione di siti – è importante, ma senza l’integrazione della tecnologia la questione rimane irrisolta. Allo stesso modo i filtri pre-bid - filtri di targeting utilizzati a monte degli acquisti – vanno ancora affinati. C’è poi chi sarebbe tentato di passare alle estreme conseguenze. Ma limitarsi alla re
servation (contatto diretto con l’editore) e abbandonare il programmatic può in fondo rappresentare una tattica conservativa in cui si perde gran parte del potenziale dell’investimento pubblicitario.
Meglio intervenire strategicamente. «La nostra attività si sviluppa sul piano della consulenza, con la selezione delle piattaforme per i nostri clienti, ma anche con gli interventi ex post, puntando a rimuovere contenuti dai siti o intervenendo sull’indicizzazione», spiega Fabio Caporizzi, market leader di Burson Cohn & Wolfe (Bcw), realtà appartenente alla galassia Wpp e di cui fa parte GroupM che sul tema ha previsto una figura apicale: l’Evp Brand Safety GroupM Global, John Montgomery.
La tematica della brand safety ha portato a prese di posizione anche abbastanza forti come quella di Unilever (si veda altro articolo in pagina) o P&G nei confronti dei colossi del web: la Google proprietaria di Youtube o Facebook. «Publicis Group – spiega Daniela Canegallo, ceo di Msl Group Italia – ha fatto un accordo con Google nel 2017. Noi abbiamo affinato tutta una serie di strumenti di “ascolto” della rete e Google ha fatto un accordo con Publicis Group per meglio tutelare il posizionamento delle campagne». Al di là di blacklist o analisi di parole chiave da cui rifuggire, c’è però da fare i conti anche con il post. E lavorare d’anticipo può essere un’arma da non sottovalutare. «Nel caso di Buondì Motta e della pubblicità dell’asteroide creata da Saatchi e sulla quale abbiamo lavorato – spiega Canegallo – abbiamo fatto un’analisi a priori. La parte critica, come previsto, c’è stata, breve. Ma il cliente ha avuto fiducia e si sono visti i risultati, importanti per la marca».
Eccolo l’altro punto chiave: il rilievo della parte “consulenziale”. «Per realtà come la nostra – afferma Fabio Dotti (EY Yello) – ci sono grandi opportunità. C’è un bisogno di strategie media e di pianificazioni “di qualità”, che mettano al riparo le aziende dalle sorprese. Dall’altra parte anche i publisher hanno una grande occasione di evidenziare la propria affidabilità».
Concorde Emilio Pucci, direttore della società di ricerche e-Media Institute: «Risulta sempre più chiaro anche agli investitori pubblicitari che nel sistema dello screen content, gli ambienti di consumo governati dagli algoritmi, ma privi di ruoli e funzioni di responsabilità editoriale non sono ambienti “sicuri”. L’editore con la sua capacità crea un contesto caratterizzato da un patto fiduciario con il proprio utente».