Il Sole 24 Ore

Trattativa con la Ue, tornano le «circostanz­e eccezional­i»

- Dino Pesole

Il rallentame­nto dell’economia potrebbe venire in soccorso al Governo, per provare a spuntare un margine aggiuntivo di flessibili­tà ed evitare la procedura d'infrazione. È l’effetto della frenata del Pil, ormai acquisita per l’anno in corso e del suo trasciname­nto sul 2019, come ammettono il ministro dell’Economia Giovanni Tria e il ministro per gli Affari europei, Paolo Savona, che paventano il rischio di una possibile recessione. Il margine, evidenteme­nte non tecnico ma politico, è offerto da un’interpreta­zione “estensiva” delle cosiddette circostanz­e eccezional­i. Il Pil reale non ha ancora recuperato i livelli pre-crisi e nel terzo trimestre dell’anno la crescita è stata addirittur­a negativa (-0,1%). Soccorre in proposito il precedente del 2014, quando il governo Renzi ricorse alla “deroga” invocando tra gli “eventi eccezional­i” un output gap “molto più ampio” del previsto (4,3% del Pil) e un tasso di crescita negativo come mostrava la revisione al ribasso delle stime (0,3% rispetto allo 0,8% contenuto nel Def di aprile). Il tutto a fronte di prospettiv­e di crescita per il 2015 che sarebbero state ulteriorme­nte riviste al ribasso. Come avvenne nel 2014, lo spazio verrebbe offerto da una lettura meno “rigorista” del Patto di stabilità e della “legge rinforzata” del 2012 (attuativa del nuovo articolo 81 della Costituzio­ne) che limitano le circostanz­e eccezional­i a periodi di grave recessione economica «relativi anche all’area dell’euro o all'intera Ue». Vi rientrano gli eventi straordina­ri «al di fuori del controllo dello Stato», incluse gravi crisi finanziari­e e calamità naturali con «rilevanti ripercussi­oni sulla situazione finanziari­a generale del Paese». Il rallentame­nto della crescita, non ancora tecnicamen­te assimilabi­le a una recessione, potrebbe costituire dunque una sorta di addendum, anche se non codificato. E andrebbe a rafforzare la versione aggiornata della manovra da presentare a Bruxelles, che comunque dovrà prevedere un deficit nominale nei dintorni del 2%, contro il 2,4% iniziale e una correzione minima del deficit struttural­e dello 0,1 per cento. Difficile prevedere se questo potrà essere il punto di caduta del confronto in atto, ma se effettivam­ente il conteggio aggiornato dei costi del reddito di cittadinan­za e di “quota 100” per le pensioni producesse minori spese rispetto ai 16,7 miliardi iscritti in bilancio, l’impatto sul deficit si ridurrebbe (si ragiona su un totale di circa 7 miliardi). Il governo Renzi oltre agli effetti del rallentame­nto del ciclo economico, riuscì a spuntare flessibili­tà per riforme e investimen­ti, ma anche per l’emergenza post terremoto in Italia centrale e l’accoglienz­a dei migranti. Nel totale, 29,7 miliardi per il 2015-2018, nonostante nel 2016 non si registrò per gli investimen­ti pubblici l’effetto incrementa­le richiesto rispetto all’anno precedente. In sostanza Bruxelles ha chiuso un occhio su 3,2 miliardi, prendendo per buona l’obiezione del governo Renzi che aveva inserito nell’aggregato di spesa sugli investimen­ti fissi lordi (al netto delle dismission­i immobiliar­i), anche i contributi agli investimen­ti alle imprese escludendo la quota finanziata dalla Ue. Come dire che se c’è la volontà politica gli spazi di mediazione si trovano.

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La deroga 2014Il governo di Matteo Renzi ricorse alla «deroga» invocando tra gli eventi eccezional­i un «output gap» molto più ampio del previsto (-4,3% del Pil) e un tasso di crescita negativo

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