Trattativa con la Ue, tornano le «circostanze eccezionali»
Il rallentamento dell’economia potrebbe venire in soccorso al Governo, per provare a spuntare un margine aggiuntivo di flessibilità ed evitare la procedura d'infrazione. È l’effetto della frenata del Pil, ormai acquisita per l’anno in corso e del suo trascinamento sul 2019, come ammettono il ministro dell’Economia Giovanni Tria e il ministro per gli Affari europei, Paolo Savona, che paventano il rischio di una possibile recessione. Il margine, evidentemente non tecnico ma politico, è offerto da un’interpretazione “estensiva” delle cosiddette circostanze eccezionali. Il Pil reale non ha ancora recuperato i livelli pre-crisi e nel terzo trimestre dell’anno la crescita è stata addirittura negativa (-0,1%). Soccorre in proposito il precedente del 2014, quando il governo Renzi ricorse alla “deroga” invocando tra gli “eventi eccezionali” un output gap “molto più ampio” del previsto (4,3% del Pil) e un tasso di crescita negativo come mostrava la revisione al ribasso delle stime (0,3% rispetto allo 0,8% contenuto nel Def di aprile). Il tutto a fronte di prospettive di crescita per il 2015 che sarebbero state ulteriormente riviste al ribasso. Come avvenne nel 2014, lo spazio verrebbe offerto da una lettura meno “rigorista” del Patto di stabilità e della “legge rinforzata” del 2012 (attuativa del nuovo articolo 81 della Costituzione) che limitano le circostanze eccezionali a periodi di grave recessione economica «relativi anche all’area dell’euro o all'intera Ue». Vi rientrano gli eventi straordinari «al di fuori del controllo dello Stato», incluse gravi crisi finanziarie e calamità naturali con «rilevanti ripercussioni sulla situazione finanziaria generale del Paese». Il rallentamento della crescita, non ancora tecnicamente assimilabile a una recessione, potrebbe costituire dunque una sorta di addendum, anche se non codificato. E andrebbe a rafforzare la versione aggiornata della manovra da presentare a Bruxelles, che comunque dovrà prevedere un deficit nominale nei dintorni del 2%, contro il 2,4% iniziale e una correzione minima del deficit strutturale dello 0,1 per cento. Difficile prevedere se questo potrà essere il punto di caduta del confronto in atto, ma se effettivamente il conteggio aggiornato dei costi del reddito di cittadinanza e di “quota 100” per le pensioni producesse minori spese rispetto ai 16,7 miliardi iscritti in bilancio, l’impatto sul deficit si ridurrebbe (si ragiona su un totale di circa 7 miliardi). Il governo Renzi oltre agli effetti del rallentamento del ciclo economico, riuscì a spuntare flessibilità per riforme e investimenti, ma anche per l’emergenza post terremoto in Italia centrale e l’accoglienza dei migranti. Nel totale, 29,7 miliardi per il 2015-2018, nonostante nel 2016 non si registrò per gli investimenti pubblici l’effetto incrementale richiesto rispetto all’anno precedente. In sostanza Bruxelles ha chiuso un occhio su 3,2 miliardi, prendendo per buona l’obiezione del governo Renzi che aveva inserito nell’aggregato di spesa sugli investimenti fissi lordi (al netto delle dismissioni immobiliari), anche i contributi agli investimenti alle imprese escludendo la quota finanziata dalla Ue. Come dire che se c’è la volontà politica gli spazi di mediazione si trovano.