Il Sole 24 Ore

Pd, scatta la competizio­ne fra i piani di Renzi e Calenda

Ma l’ex premier frena: non lavoro a qualcosa di diverso Pressing dem su Gentiloni

- Emilia Patta ROMA

Stessa convinzion­e che occorra andare oltre il Pd per creare un nuovo contenitor­e politico liberal-democratic­o e riformista, saldamente ancorato all’Europa, che si opponga ai “populisti” e “sovranisti” al governo. Stessa difesa della politica economica e delle riforme messe in campo dal Pd negli anni di governo, a partire dal Jobs act e da Industria 4.0. E l’elenco potrebbe continuare a lungo. La logica politica vorrebbe che Matteo Renzi e Carlo Calenda, se alla fine il nuovo contenitor­e oltre il Pd nascerà davvero, si ritrovino dalla stessa parte della barricata. In fondo il possibile “campo” elettorale è lo stesso. Eppure chi li conosce bene scommette che così non sarà. E infatti Calenda conferma che il suo progetto di “fronte repubblica­no” per unire gli anti-sovranisti è comunque in campo, e non da oggi, indipenden­temente da quello che deciderà di fare nelle prossime settimane Renzi. Come ha avuto modo di dire qualche settimana fa il leader della Fim-Cisl Fabrizio Bentivogli, vicino a Calenda ma lontano dalle dinamiche congressua­li per rispetto dell’autonomia sindacale, la battaglia nel Pd del dopo 4 marzo assomiglia molto a quella dei ragazzi della via Pal: «Tutti vogliono fare il generale e nessuno il soldato semplice».

Chi di certo non vuole fare il soldato semplice è Renzi, che ieri ha ribadito tutta la sua distanza dal congresso in corso nel partito di cui è stato leader («non chiedetemi di fare il burattinai­o al congresso, non farò mai il capocorren­te») pur smentendo - almeno per ora - l’intenzione di procedere verso una scissione: «Di scissioni ne abbiamo viste già abbastanza, non è all’ordine del giorno e non ci sto lavorando io a qualcosa di diverso». Il fatto è che Renzi non pensa al possibile nuovo contenitor­e, che resta un’opzione in campo a maggior ragione dopo il ritiro di Marco Minniti dalla corsa congressua­le, come a una vera e propria scissione. Se alla fine deciderà - il lancio della nuova “cosa” potrebbe essere già a gennaio - la sua sarà una fuga in avanti solitaria, senza parlamenta­ri e ceto politico al seguito. Anche per questo i suoi sono spiazzati. Rimasti senza guida, i parlamenta­ri del cerchio stretto - Lorenzo Guerini, Ettore Rosato, Luca Lotti, Andrea Marcucci e pochi altri - si sono dati 48 ore di tempo per decidere se mettere in campo un altro candidato, a questo punto di bandiera, oppure assistere da «spettatori» del congresso. Opzione, quest’ultima, che preludereb­be alla formazione di gruppi autonomi dopo la probabile vittoria di Zingaretti alle primarie, anche se l’opposizion­e di molti all’ipotesi scissione (tra gli altri Dario Parrini, Matteo Ricci, Stefano Ceccanti e Enrico Morando) fa pensare che non più della metà degli attuali eletti renziani (64 su 110 alla Camera e 32 su 52 in Senato) uscirebbe al dunque dai gruppi dem.

Né in queste ore convulse sono mancati, da parte di alcuni renziani come Lotti così come da parte di altre correnti, tentativi di convincere Paolo Gentiloni a scendere in campo per “salvare” il Pd. Ma l’ex premier, che non ne ha alcuna intenzione in queste condizioni, ha declinato. Gentiloni continua a puntare su Zingaretti, ritagliand­o per sé il ruolo più super partes di presidente del partito e possibile candidato premier della coalizione che verrà.

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