Intangibili e disuguali
Avanzano, pur ancora difficilmente misurabili, gli investimenti in software, design, linguaggio: un mondo affascinante ma anche generatore di squilibri
Fino a non troppo tempo fa gli investimenti per un’azienda erano l’edificio per lo stabilimento, il macchinario per la produzione, i veicoli per il trasporto. Oltre, naturalmente, al capitale umano. Poi sono diventati i computer e adesso i robot. Ma, sempre più spesso, anche il software, l’aggregazione dei dati, il design, la formazione, la ricerca di mercato, le azioni di potenziamento del marchio. Perfino il linguaggio può essere un investimento perché dà forma a un’idea di cultura aziendale che diventa essa stessa il prodotto da vendere.
Dal clangore dell’investimento tangibile, insomma, si è arrivati all’inafferrabilità dell’investimento intangibile. Come si sia giunti fin qui e quale possa essere l’evoluzione per il futuro è lo scopo di Capitalismo senza capitale. L’ascesa dell’economia intangibile, scritto da due economisti inglesi, Jonathan Haskel e Stian Westlake. Una cavalcata divulgativa, quanto basta per non perdere il rigore scientifico, che schiude fenomeni tanto fascinosi quanto non immediatamente percepibili.
A cominciare dal fatto che quel tipo di investimenti ancora faticano a trovare dignità statistica nei database istituzionali e ufficiali. Troppo spesso figurano, spogliati del loro valore strategico, nel grande aggregato delle spese correnti. Contabilmente quasi un fastidio nel grande capitolo delle uscite. Ciò rende ancora irrisolto il problema della loro misurazione, con il rischio, tuttora esistente, di una narrazione della realtà economica non rispondente alla effettiva entità del cambiamento e delle sue conseguenze.
La transizione verso la consapevolezza è ancora in atto, ci dicono Haskel e Westlake. Ma prima si acquisisce questa percezione, prima si possono risolvere i problemi legati al nuovo mondo della conoscenza come investimento. Anche perché, quel mondo, genera sì situazioni e fenomeni tanto inimmaginabili quanto affascinanti, ma crea anche squilibri e diseguaglianze oltre a imprese maggiormente scalabili. L’economia intangibile è per natura esposta al rischio duplicazione, ma è anche fonte di spillover, vale a dire di un effetto-alone e di impollinazione verso le altre imprese o verso altre comunità, destinate così a dar vita a preziose sinergie e reti prima inesistenti. Inoltre può indurre una competizione più virtuosa tra aziende o gruppi, laddove aumenti la sensibilità verso la formazione e la ricerca di leadership inclusive e “informate”.
L’aspetto più interessante dell’esame dei due autori è proprio quello sulla diseguaglianza. Non c’è alcun tentativo di camuffare il tema, nonostante il volume sia chiaramente un inno alla svolta verso l’economia intangibile. La prima diseguaglianza è di reddito: aumenta la competition tra imprese rivali e al loro interno cresce il divario nelle retribuzioni dei lavoratori (serve sempre più competenza specifica e alta formazione). I più qualificati naturalmente sono concentrati nelle aziende ad alta intensità di asset intangibili che si possono permettere anche retribuzioni «fuori misura».
La seconda diseguaglianza è quella nella ricchezza, intesa come squilibrio tra i benefici che lo spillover delle imprese più evolute garantisce alle città e alle zone dove decidono di insediarsi. E questo, come prima conseguenza, genera un aumento immediato dei valori immobiliari e dei prezzi delle abitazioni, fatto che, nella lettura dei due autori, è il principale responsabile dell’aumento della ricchezza di chi già è ricco. Il fatto poi che le imprese prototipo dell’intangibilità siano anche, per definizione, molto mobili e possano trasferirsi rapidamente da un luogo all’altro del mondo rende difficile la loro tassazione, impedendo quindi le classiche azioni redistributive ad opera del fisco (oportuno il rilancio che i due autori fanno di un libro profetico degli anni 90, Il lavoro delle nazioni di Robert Reich, ministro del Lavoro di Bill Clinton, che preconizzava la nascita di una nuova casta di ottimati globali denominati «analisti simbolici»).
È importante anche la terza diseguaglianza: quella nel prestigio. Haskel e Westlake arrivano a sostenere, per questa via, che parte del successo dei nuovi movimenti populisti derivi proprio dalla scarsa propensione di queste aggregazioni politiche verso l’economia del cambiamento. Che, al contrario, genera una pressione sfavorevole, una sorta di invidia sociale verso il mondo dell’intangibilità e della sua aura di superiorità di classe. E questa sì, a giudicare da ciò che accade un po’ in tutto il mondo, è davvero tangibile. I due autori si fermano all’analisi, salvo raccomandare alle politiche pubbliche (e ai decisori politici) di investire anche risorse in questo tipo di asset. Per il semplice fatto - è la loro conclusione - che questo tipo di politiche «hanno maggiori possibilità di assicurare la prosperità economica delle strategie che vi si oppongono».