Dimissioni e shutdown, alla Casa Bianca c’è il caos
Le clamorose dimissioni di Mattis dal Pentagono legate al ritiro dalla Siria Il presidente: «shutdown» prolungato finché non sarà finanziato il muro
Le dimissioni del segretario alla Difesa Mattis e il braccio di ferro con i Democratici sui fondi per la costruzione del muro antimigranti con il Messico rischiano di gettare l’amministrazione Trump nel caos. Lo stesso presidente ha dichiarato di andare allo shutdown a oltranza se non c’è il via libera ai fondi.
Non ci sono più “adulti nella stanza ovale”. Dopo le dimissioni del segretario alla Difesa Jim Mattis, 68 anni, il volto più credibile dell’amministrazione Trump. Attorno al ritiro americano dalla Siria l’attenzione è elevata in tutte le cancellerie mondiali. Dalle capitali alleate arrivano a Washington decine di telefonate per capire che cosa stia succedendo. Plaude alla decisione Vladimir Putin, avvantaggiato dall’uscita di scena degli americani: «Donald ha ragione, ha fatto bene», sentenzia il leader russo, pregustando i vantaggi di una Russia che avrà mani libere nell’area. Festeggiano anche l’Iran e la Turchia di Erdogan, che prepara una offensiva sulle milizie curde armate e addestrate dagli americani da quattro anni e ora abbandonate al loro destino. Il vero rischio è l’Isis, al momento marginalizzato in un’area al confine con l’Iraq, che si teme possa rialzare la testa. Al Pentagono molti parlano di «errore colossale». Trump non ascolta i consigli dei militari e rilancia con l’Afghanistan: ai suoi stretti collaboratori, quelli rimasti, verbalmente ha comunicato l’intenzione di far rientrare 7.000 soldati americani da Kabul, la metà dei 14mila nel Paese. Anche i talebani festeggiano.
Il resto del mondo, gli alleati e le potenze asiatiche invece si interrogano sul ruolo della superpotenza americana che «non è più il poliziotto del mondo», come ha confermato Trump. Mattis era l’uomo che sfilava i dossier dalla scrivania del presidente di nascosto per evitare le decisioni più avventate, come l’idea del raid aereo lo scorso anno per uccidere il presidente siriano Bashar al-Assad. Il mondo poteva contare su personaggi come il generale a quattro stelle dei marines per contenere la dottrina neo isolazionista e unilaterale dell’America First. Con le sue dimissioni anche questa linea di difesa è saltata.
Per la presidenza di Donald Trump, che mostra tutta la sua fragilità in queste ore, si tratta forse del momento più delicato. Il governo federale è in crisi, fratturato al suo interno dai continui cambi di squadra e per la tormentata vicenda dello shutdown, inaspettato “regalo di Natale” agli americani che blocca l’attività ordinaria dell’esecutivo. Uffici e musei chiusi. Dipendenti pubblici a casa per l’impossibilità di pagare gli stipendi.
Trump ha cercato di forzare la mano fino all’ultimo con la richiesta dei 5 miliardi di finanziamenti per costruire il muro anti-immigrati al confine con il Messico. Richiesta accolta dalla Camera, ancora a maggioranza repubblicana. Ma che rischia di arenarsi al Senato, dove non ci sono i numeri, se entro mezzanotte, come sembra, non si arriverà all’approvazione. Trump dà già la colpa ai democratici. Continua con frenesia a produrre tweet, a difendersi attaccando come un cane rabbioso pur di non apparire debole e un uomo solo al comando qual è in questo momento. E a firmare ridde di nomine e provvedimenti promessi in campagna elettorale: l’ultimo è il Farm bill, la legge che concede i finanziamenti all’agricoltura: 867 miliardi di aiuti per i farmer, zoccolo duro della sua base elettorale.
Lunedì James Keffrey, l’inviato del dipartimento di Stato in Siria, al Consiglio Atlantico aveva detto che gli Stati Uniti sarebbero rimasti in Siria fino alla sconfitta dell’Isis, fino al contenimento dell’influenza iraniana e al raggiungimento di una soluzione politica per la guerra civile. Due giorni dopo Trump, senza informare il suo primo consigliere sulla Difesa, ha deciso di riportare i ragazzi a casa. È stata la goccia che mancava per spingere “Mad dog”, il nomignolo conquistato in guerra da Mattis, a scrivere la lettera di dimissioni. «Caro signor presidente, ho avuto il privilegio di servire il mio Paese come 26esimo segretario alla Difesa in difesa dei nostri cittadini e dei nostri ideali. (…) Poiché lei ha il diritto di avere un segretario alla Difesa le cui opinioni siano meglio allineate con le sue, credo sia giusto a che io mi dimetta dal mio incarico». Lascia l’ennesimo pezzo da novanta. Le posizioni tra i due erano troppo distanti.
La Casa Bianca oggi appare più come un fortino, un bunker, che la casa di tutti gli americani, come trapela dai più stretti collaboratori del presidente. Riassume bene la situazione Leon Panetta, ex segretario alla Difesa e capo della Cia. «Alla Casa Bianca si è sempre in uno stato costante di caos». Caos che rischia di aumentare da gennaio quando si insedierà la nuova Camera a maggioranza democratica.
Oltre all’inchiesta sul Russiagate del procuratore speciale Robert Mueller che arriverà a termine, ce ne sarà un’altra, sicura, che verrà aperta a Capitol Hill. Il deputato democratico Adam Schiff sarà il presidente della Commissione di intelligence della Camera e ha fatto sapere che lancerà un’inchiesta sulla Fondazione Trump, appena fatta chiudere, per seguire il flusso di finanziamenti che si sospetta siano arrivati da russi e sauditi attraverso un conto corrente di Deutsche Bank. Al grido di “follow the money” Schiff già ipotizza le conclusioni: se verranno provate le operazioni di riciclaggio di denaro russo nella charity di Trump ci sarà più di un motivo per parlare di influenza sulla politica estera americana e di attentato alla sicurezza nazionale.