LO STRESS TEST DELLE BANCHE CENTRALI
Dal 2008, i sistemi bancari mondiali sono stati sottoposti a continui stress test. Ora tocca alle banche centrali: come si esce dall’esperimento del Qe senza danni per l’economia? Ha iniziato la Fed. E, a giudicare da come ha gestito e comunicato il rialzo dei tassi di mercoledì scorso, non lo ha superato.
L’aumento a 2,25-2,50% del tasso di politica monetaria, e l’indicazione di tre ulteriori rialzi, di cui due nel 2019 (per un ulteriore 0,75% totale) ha creato confusione sul modello decisionale della Fed e gettato nello scompiglio i mercati.
Avendo dichiarato un obiettivo di inflazione al 2% simmetrico (i periodi sopra la media compensano quelli sotto), la Fed ha sconfessato se stessa poiché ha aumentato i tassi, e mantenuto una traiettoria al rialzo fino al 2020, nonostante l’indice dei prezzi usato dalla Banca centrale (spesa dei consumatori al netto di alimentari ed energia) non abbia mai superato il 2% dalla crisi del 2008, e da qualche mese sia in discesa al 1,8%. Gli aumenti salariali difficilmente spingeranno l’inflazione dal lato dei costi, sia perché fisiologici in questo stadio del ciclo, sia perché la storica relazione tra disoccupazione e inflazione è venuta meno, sia perché la caduta del tasso di partecipazione al mercato del lavoro (dal 66,2% del 2008 al 62,9% attuale) riduce la significatività della disoccupazione come indicatore di tensioni sul mercato del lavoro.
La Fed ha aumentato i tassi nello stesso momento in cui ha annunciato di aver ridotto la previsione di crescita Usa per il 2019, incurante anche del vistoso rallentamento di Asia ed Eurozona, del crollo del prezzo del petrolio, e di altri indicatori di debolezza del ciclo mondiale. Inoltre, continuerà in modo automatico per i prossimi anni a drenare liquidità per circa 50 miliardi al mese con il Qt (Quantitative Tightening, ovvero la riduzione dei titoli in bilancio acquistati dalla Fed col Qe), a prescindere dai livelli di inflazione e attività economica. Il tutto motivato con la previsione che il 2019 sarà comunque un anno di crescita robusta. Previsione smentita dagli stessi mercati che da una parte comprano titoli di Stato, facendo scendere i tassi a 10 anni (maggiormente sensibili alle aspettative di inflazione e crescita) fino a 2,78%, appena sopra quello monetario della Fed; e dall’altra vendono le azioni delle società più esposte al ciclo (auto, costruzioni, banche, hanno perso circa il 25%) e le obbligazioni di quelle più indebitate (lo spread delle obbligazioni con rating inferiore a BBB è aumentato di 150 punti). Sarebbe stato più saggio, come da molti auspicato, sospendere temporaneamente il rialzo dei tassi in attesa di verificare gli effetti del passaggio dal Qe al Qt.
Il rialzo dei tassi è poco comprensibile, specialmente perché la Fed, simultaneamente al rialzo attuale e all’annuncio dei tre futuri, ha però ridotto al 2,75% quello che considera il tasso “neutrale” di lungo periodo (quello che dovrebbe prevalere in con-dizioni di normalità della politica monetaria), ovvero appena 0,25% al di sopra di quello attuale. Come a voler dire che la crescita robusta prevista dalla Fed non è poi così robusta, e l’indicazione dei futuri rialzi, da prendere cum grano salis.
Un simile comportamento è spiegabile solo con la volontà di riaffermare la propria reputazione di indipendenza dalla politica - disattendendo pubblicamente le indicazioni di Trump - e dall’andamento dei mercati finanziari. Una reputazione che può costare cara all’economia e ai risparmi, non solo americani. Speriamo serva di lezione alla Bce che nel 2019 ha deciso di avviare la sua uscita dal Qe, ma in un contesto economico ben peggiore di quello americano.