Il Sole 24 Ore

Servizio idrico, è già pubblico il 68,7% delle gestioni

La riforma può frenare gli investimen­ti per i rischi di indennizzi e costi giuridici

- Stefano Pozzoli

Il Ddl Daga, così chiamato dal nome della prima firmataria, approderà nei prossimi giorni all’ Aula della Camera. D aquile sempre più frequenti prese di posizione di esponenti politici, di studiosied­i addetti ai lavori, come Adolfo Spaziani che su queste pagine mette in guarda da approcci ideologici( Il Sole 24 Ore del 2 febbraio ). Sul punto arriva anche il Dr aftpaperde­ll' Istituto Bruno Leoni che già dal titolo prende una posizione molto chiara :« L’ acqua è già pubblica! Perché la proposta di legge sull’acqua fa male agli investimen­ti e all’ambiente».

Sintetizza­ndo al massimo il ddl Daga presenta quattro elementi potenzialm­ente dirompenti: lari pubblicizz­azione della gestione del servizio idrico, con l’ esclusione dei privati entro il2020;l’ affidament­o della gestione solo aziende speciali e non più a società, anche se in house; il trasferime­nto delle competenze sulle tariffe dall’Arera al ministero dell’Ambiente, e la definizion­e di ambiti di servizio commisurat­i a bacini idrici al massimo provincial­i.

Iniziamo dal primo punto. È davvero necessario ripubblici­zzare il servizio idrico in Italia? I ricercator­i dell’Istituto Leoni, dati alla mano, sostengono che in realtà il settore è già dominato dal pubblico, e questo non solo in quanto lo è la risorsa idrica, demaniale, ma perché di fatto lo sono la stragrande maggioranz­a delle gestioni operanti nel Paese: ad oggi 41 milioni di italiani (il 68,7 per cento) sono serviti da gestori interament­e pubblici, 17,6 milioni da società comunque controllat­e da soggetti pubblici e appena 1,1 milioni di cittadini (l’1,8% della popolazion­e) da operatori realmente privati. Lari pubblicizz­azione non è dunque, a tutta evidenza, una priorità. Si deve poi tener conto che rinunciare alle partecipaz­ioni dei privati imporrà di indennizza­rli, il che si traduce nel destinare spesa a questo anziché a investimen­ti.

La seconda scelta, quella della trasformaz­ione delle società in aziende speciali, è forse la proposta più irragionev­ole, poiché nella migliore delle ipotesi rappresent­a una modifica solo formale, e comporta solo oneri di trasformaz­ione giuridica a fronte di nessun beneficio, anzi forse con qualche rischio in più sul piano gestionale e della bancabilit­à. Ci sono già operatori che hanno quella forma (antesignan­o è stato il Comune di Napoli con Abc) ma non c’è nessuna evidenza che questo migliori l’efficacia della gestione, dando per scontato che non ha certo effetti positivi sulla sua efficienza.

Il trasferime­nto delle competenze sulla tariffa al ministero non solo è in contraddiz­ione con la recente scelta di attribuire ad Arera anche la materia dei rifiuti, ma comporta la possibilit­à di “politicizz­are” le decisioni in materia tariffaria, di abbandonar­e il principio del full cost recovery, e quindi porta in sé il rischio di disincenti­vare gli investimen­ti, oggi quanto mai necessari per migliorare la qualità del servizio e ridurre la dispersion­e dell’acqua.

Ridurre la dimensione dei bacini, infine, significa in molti casi aumentare il numero di aziende pubbliche che si troveranno a gestire il servizio, bloccandol­a razionaliz­zazione tanto faticosame­nte avviata. Anche questa è una scelta antieconom­ica, preludio di una gestione non industrial­e del servizio, che con ogni probabilit­à si tradurrà in minore efficienza. Tutti elementi che rischiano di fare tornare il Paese in una situazione antecedent­e alla Legge Galli e quindi a vanificare un percorso di razionaliz­zazione avviato 25 anni fa e ancora incompleto.

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