Il calmante della droga monetaria
Non solo Fed, Bce e BoJ: la politica monetaria espansiva è ormai globale
Con l’incertezza politica ai massimi e l’economia in fase di frenata ci si aspetterebbe tensione sui mercati. Così non è stato: da inizio anno le Borse mondiali hanno guadagnato quasi il 10% del loro valore e la volatilità è bassa (il Vix, l’indice della paura, è ai minimi dallo scorso ottobre). Questo è successo perché, in un contesto politicamente incerto e i segnali di rallentamento del ciclo, le banche centrali sono tornate in campo.
Se nella seconda metà del 2018 si era consolidata l’aspettativa su una stretta monetaria fin dai primi giorni del nuovo anno i banchieri centrali hanno fatto chiaramente capire di essere pronti a cambiare rotta. Il la lo ha come sempre dato la Fed quando il governatore Powell, all’inizio dell’anno, ha fatto capire di essere pronto ad ammorbidire la sua politica alla luce dei segnali di rallentamento dell’economia globale. Le dichiarazioni espansive di Powell, a cui ha fatto seguito la decisione di «congelare il rialzo dei tassi», hanno spinto i governatori in tutto il mondo a muoversi nella stessa direzione. Sia la Bce sia la Banca del Giappone hanno espresso preoccupazioni circa i rischi al ribasso per le prospettive economiche. Di recente la Banca centrale australiana ha tagliato le sue previsioni di crescita e inflazione; lo stesso ha fatto la Banca d’Inghilterra il cui prossimo rialzo dei tassi si è fatto ora più improbabile. Anche nei Paesi emergenti molti governatori hanno messo in atto politiche simili: la Banca centrale indiana ha sorpreso tutti con un taglio dei tassi; la Banca del Messico ha rimosso l’avvertimento di un ulteriore inasprimento del costo del denaro a causa dell’inflazione più bassa e della crescita più debole; le banche centrali di Brasile e Russia hanno abbassato le loro aspettative sull’inflazione. Da un censimento sulle dichiarazioni dei banchieri centrali dei Paesi emergenti fatto da Bank of America è emerso che non ci sono state tante esternazioni “espansive” dal 2009 ad oggi.
Se sul fronte politico i fattori di incertezza aumentano, sul fronte monetario le banche centrali hanno dimostrato di essere pronte a dare tutto il sostegno necessario all’economia per contrastare gli effetti del rallentamento del ciclo. «Il problema - segnala Joachim Fels, Global Economic Advisor di Pimco - è che tutto ciò comporta un prezzo da pagare». Se si escludono gli Stati Uniti, dove la Fed ha messo in atto nove rialzi dei tassi dal 2015, le condizioni di politica monetaria restano eccezionalmente accomodanti pressoché ovunque. «Mantenerle tali - spiega Fels -significa contribuire al prolungamento dell’attuale fase di fine del ciclo con il rischio di trovarsi ad affrontare una recessione senza gli strumenti adatti per contrastarla».
Il discorso vale in primo luogo per l’Eurozona. Mario Draghi ha recentemente tenuto a rassicurare gli investitori di avere ancora molte frecce al suo arco ma è anche vero che molti di questi strumenti richiederanno una notevole mediazione politica per essere attuati. Un caso riguarda la possibile estensione del Quantitative easing. Alle attuali condizioni infatti Capital Economics stima che la Bce possa comprare non più di 500 miliardi di euro di titoli di Stato. Aumentarne l’ammontare significa rivedere i criteri che regolano il piano (uno su tutti quello che impone il tetto massimo del 33% del debito di ogni singolo Paese che è possibile detenere) con il rischio di avvantaggiare alcuni Paesi a scapito di altri. «Se l’area euro dovesse ulteriormente rallentare, possiamo adattare la nostra tabella di marcia sui tassi e completarla con ulteriori misure», ha confermato ieri il capo economista di Bce Peter Praet in un’intervista a Boersen-Zeitung.