Da Spartanburg è Bmw il primo esportatore Usa
L’impianto occupa 11mila persone e produce oltre 400mila veicoli all’anno
La Bmw 507 di Elvis Presley in bella evidenza è esposta all’ingresso della fabbrica di Spartanburg. Racconta una storia che è tanto americana quanto tedesca. È una città nella città. Perché i capannoni, i laboratori e le strutture da 8 miliardi di dollari che il gruppo Bmw ha costruito in questo angolo di America appaiono quasi sproporzionati rispetto alle cittadine più prossime, ai rinati centri di Greer, di Greenville e all’omonima contea della South Carolina. In questa città di 470 ettari lavorano oggi novemila dipendenti. Gli addetti salgono a oltre 30mila persone con l’indotto. Una fabbrica con Dna tedesco che è diventata il più grande impianto produttivo del settore automotive negli Stati Uniti, dal quale ogni anno vengono sfornate 480mila vetture. I modelli targati Spartanburg - gli X3, X4, X5, X6 e i Suv X7 - sono per il 70% in partenza verso 140 paesi, soprattutto Asia ed Europa. Grazie a un vasto porto interno, miracolo di una logistica che ogni anno trasporta, anzitutto via rotaia ma anche cargo aereo, centinaia di migliaia di veicoli a 300 chilometri di distanza, al vero porto oceanico di Charleston.
Lo stabilimento Bmw debuttò nel 1994 e non è rimasto un caso isolato. Accanto alla fabbrica sono sorti gli impianti dei componentisti e delle società collegate. A partire da Michelin, che mosse i primi passi nel 1978 e oggi ha sette impianti nella regione. Fino alla neofita giapponese Toray, capace di un investimento record da un miliardo per fibre di carbonio destinate all’aerospazio. Non mancano aziende più piccole, tra cui italiane come Vetroresina. Ben il 40% delle società del polo nato attorno alla città-fabbrica di Bmw è straniero (europeo e asiatico) e l’85% è composto di aziende manifatturiere, spiega il vicedirettore della Camera di commercio locale, Carter Smith. Ma il simbolo del tessuto industriale della regione rimane ancora Bmw: i suoi portavoce negano di volersi arrendere alla retorica nazionalista e alle minacce di dazi con il pretesto della sicurezza nazionale.
Una cosa è certa in questa partita: l’amministrazione americana vuole diminuire il deficit commerciale di 30 miliardi di dollari con la Germania, in gran parte prodotto da auto e componentistica. Una cifra, quella dell’auto tedesca che rappresenta quasi la metà del deficit complessivo tra Unione europea e Stati Uniti di circa 65 miliardi di dollari l’anno. Oltre alla fabbrica simbolo di Bmw, Volkswagen ha un grande impianto a Chattanooga, in Tennessee, Mercedes costruisce i veicoli Gle e della classe R negli stabilimenti di Tuscaloosa, in Alabama.
Con il rischio dei dazi e l’incertezza sulle politiche dell’amministrazione Trump, gli investimenti dei car maker tedeschi si sono bloccati. Bmw aveva intenzione di costruire un nuovo sito produttivo negli Stati Uniti per motori e trasmissioni. Volkswagen, al Salone di Detroit, ha appena annunciato un accordo industriale con Ford per produrre pick-up e veicoli commerciali leggeri, modelli elettrici e a guida autonoma, ma frena ora sulla prima tranche di investimenti da un miliardo.
Negli ultimi dieci anni Bmw, Mercedes-Daimler e il gruppo Volkswagen hanno già aumentato di quattro volte la produzione di auto negli Stati Uniti: 804.200 veicoli sfornati nel 2017, il 7,4% della produzione totale di auto Usa. Si stima che ogni nuovo modello prodotto dai tedeschi in America porti circa 10mila nuovi posti di lavoro, tra diretti e indotto.
Il paradosso di questa storia è che Bmw e Mercedes sono, nell’ordine, i due maggiori esportatori di auto americane verso la Cina. Gm, il primo gruppo automotive Usa - che ha appena annunciato un taglio di quasi 15mila lavoratori e la chiusura di cinque impianti in Nord America non esporta niente in Cina: ha delocalizzato tutto nel paese asiatico ed è diventata in pochi anni il primo produttore di autoveicoli, grazie ai vari stabilimenti aperti in joint venture con i partner cinesi.