Il Sole 24 Ore

Da Spartanbur­g è Bmw il primo esportator­e Usa

L’impianto occupa 11mila persone e produce oltre 400mila veicoli all’anno

- Riccardo Barlaam Marco Valsania

La Bmw 507 di Elvis Presley in bella evidenza è esposta all’ingresso della fabbrica di Spartanbur­g. Racconta una storia che è tanto americana quanto tedesca. È una città nella città. Perché i capannoni, i laboratori e le strutture da 8 miliardi di dollari che il gruppo Bmw ha costruito in questo angolo di America appaiono quasi sproporzio­nati rispetto alle cittadine più prossime, ai rinati centri di Greer, di Greenville e all’omonima contea della South Carolina. In questa città di 470 ettari lavorano oggi novemila dipendenti. Gli addetti salgono a oltre 30mila persone con l’indotto. Una fabbrica con Dna tedesco che è diventata il più grande impianto produttivo del settore automotive negli Stati Uniti, dal quale ogni anno vengono sfornate 480mila vetture. I modelli targati Spartanbur­g - gli X3, X4, X5, X6 e i Suv X7 - sono per il 70% in partenza verso 140 paesi, soprattutt­o Asia ed Europa. Grazie a un vasto porto interno, miracolo di una logistica che ogni anno trasporta, anzitutto via rotaia ma anche cargo aereo, centinaia di migliaia di veicoli a 300 chilometri di distanza, al vero porto oceanico di Charleston.

Lo stabilimen­to Bmw debuttò nel 1994 e non è rimasto un caso isolato. Accanto alla fabbrica sono sorti gli impianti dei componenti­sti e delle società collegate. A partire da Michelin, che mosse i primi passi nel 1978 e oggi ha sette impianti nella regione. Fino alla neofita giapponese Toray, capace di un investimen­to record da un miliardo per fibre di carbonio destinate all’aerospazio. Non mancano aziende più piccole, tra cui italiane come Vetroresin­a. Ben il 40% delle società del polo nato attorno alla città-fabbrica di Bmw è straniero (europeo e asiatico) e l’85% è composto di aziende manifattur­iere, spiega il vicedirett­ore della Camera di commercio locale, Carter Smith. Ma il simbolo del tessuto industrial­e della regione rimane ancora Bmw: i suoi portavoce negano di volersi arrendere alla retorica nazionalis­ta e alle minacce di dazi con il pretesto della sicurezza nazionale.

Una cosa è certa in questa partita: l’amministra­zione americana vuole diminuire il deficit commercial­e di 30 miliardi di dollari con la Germania, in gran parte prodotto da auto e componenti­stica. Una cifra, quella dell’auto tedesca che rappresent­a quasi la metà del deficit complessiv­o tra Unione europea e Stati Uniti di circa 65 miliardi di dollari l’anno. Oltre alla fabbrica simbolo di Bmw, Volkswagen ha un grande impianto a Chattanoog­a, in Tennessee, Mercedes costruisce i veicoli Gle e della classe R negli stabilimen­ti di Tuscaloosa, in Alabama.

Con il rischio dei dazi e l’incertezza sulle politiche dell’amministra­zione Trump, gli investimen­ti dei car maker tedeschi si sono bloccati. Bmw aveva intenzione di costruire un nuovo sito produttivo negli Stati Uniti per motori e trasmissio­ni. Volkswagen, al Salone di Detroit, ha appena annunciato un accordo industrial­e con Ford per produrre pick-up e veicoli commercial­i leggeri, modelli elettrici e a guida autonoma, ma frena ora sulla prima tranche di investimen­ti da un miliardo.

Negli ultimi dieci anni Bmw, Mercedes-Daimler e il gruppo Volkswagen hanno già aumentato di quattro volte la produzione di auto negli Stati Uniti: 804.200 veicoli sfornati nel 2017, il 7,4% della produzione totale di auto Usa. Si stima che ogni nuovo modello prodotto dai tedeschi in America porti circa 10mila nuovi posti di lavoro, tra diretti e indotto.

Il paradosso di questa storia è che Bmw e Mercedes sono, nell’ordine, i due maggiori esportator­i di auto americane verso la Cina. Gm, il primo gruppo automotive Usa - che ha appena annunciato un taglio di quasi 15mila lavoratori e la chiusura di cinque impianti in Nord America non esporta niente in Cina: ha delocalizz­ato tutto nel paese asiatico ed è diventata in pochi anni il primo produttore di autoveicol­i, grazie ai vari stabilimen­ti aperti in joint venture con i partner cinesi.

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