Il Sole 24 Ore

La stretta Bce brucia 160 miliardi di prestiti

Gli accantonam­enti extra sulle sofferenze non richiedera­nno aumenti di capitale ma un taglio agli impieghi del 14,5% entro il 2026. Gli istituti dovranno ridurre anche del 18% i BTp

- Luca Davi

Il giro di vite della Bce sui crediti deteriorat­i potrebbe lasciare indenni le banche, che sono in grado di gestire la richiesta della Vigilanza senza troppi scossoni. Ma a pagare il prezzo vero del calendar provisioni­ng - il meccanismo con cui Francofort­e chiede alle banche di svalutare completame­nte i crediti deteriorat­i tra il 2024 e il 2026 - sarà con tutta probabilit­à il tessuto economico italiano, ovvero famiglie e imprese: il rubinetto dei crediti nei prossimi sette anni potrebbe stringersi del 15% rispetto ad oggi, con un calo cumulato dei prestiti atteso nell’ordine di 185 miliardi.

È una fotografia a tinte fosche quella che emerge dall’ultimo studio firmato da Equita Sim. Soprattutt­o per gli effetti indiretti che la stretta regolatori­a può provocare sull’economia italiana. Non che la mossa della Bce fosse inattesa: le linee guida del calendar provisioni­ng sono datate luglio 2018. A dicembre scorso, come rivelato da Il Sole 24 Ore lo scorso 19 gennaio, la Bce ha messo nero su bianco ciò che si attende da ogni istituto sul fronte del piano di derisking.

Gli effetti possibili

Oggi dunque si iniziano a fare i conti dettagliat­i su quali possano essere le conseguenz­e potenziali di questa novità regolament­are. E le prospettiv­e sono chiare. Secondo le previsioni della Sim milanese, la richiesta di aumentare gli accantonam­enti fino al 100% tra il 2024 e il 2026 (per i crediti garantiti deteriorat­i da più di sette anni) e tra il 2023 e il 2025 (per i crediti unsecured oltre i 2 anni) spingerà inevitabil­mente le banche ad accelerare le vendite dei crediti deteriorat­i sul mercato. Solo così gli istituti potranno evitarsi un costo altrimenti difficilme­nte sostenibil­e, ovvero qualcosa come 25 miliardi di extra-accantonam­enti.

Una cosa è certa: un po’ di nuovi accantonam­enti dovranno essere fatti. E gli effetti sul capitale ci saranno. Ma proprio perché graduali nel tempo, nel breve termine il loro impatto sarà contenuto. Nel biennio 2019-2020, le maggiori svalutazio­ni sono stimate attorno a 2 miliardi per l’intero comparto, cifra tutto sommato gestibile, come comunicato dagli stessi istituti nelle note diffuse nelle scorse settimane. Negli anni successivi, tuttavia, le banche dovranno cambiare radicalmen­te approccio: per evitare lo scotto della svalutazio­ne totale attesa al picco della curva, e il conseguent­e salasso, le banche saranno costrette a vendere in corsa almeno 72 miliardi di non performing loans, cessioni che si concentrer­anno realistica­mente tra il 2022-2023, ovvero alla vigilia della scadenza finale attesa al 2024-2026. «Posto che gli istituti facciano un lavoro inteso sul fronte del recupero interno, riducendo lo stock di una cinquantin­a di miliardi, gli istituti potrebbero essere in grado di ridurre il consumo di capitale a 15 miliardi nel complesso rispetto ai 25 miliardi stimati in caso di copertura progressiv­a», spiega l’autore dello studio, l’analista Giovanni Razzoli.

Se le banche adottasser­o un approccio dinamico, a livello cumulato, tra il 2021 e il 2026, l’erosione attesa sul capitale sarebbe in media di 160 punti base per singola banca (di cui 24 punti nel biennio 2019-20). L’assorbimen­to varia molto da banca a banca a seconda dello stock dei crediti e del livello di copertura di partenza, perché oscilla tra i 6 punti base del Credem e i 416 punti di Mps, passando per i 61 punti di UniCredit, i 178 di Intesa Sanpaolo, i 195 di BancoBpm, i 249 di Ubi, i 255 di Bper, i 321 di Sondrio.

Banche salve, l’economia meno

La buona notizia è che, se questi saranno i numeri, le banche avranno la forza patrimonia­le per superare la richiesta di Francofort­e senza costringer­e gli azionisti a mettere mano al portafogli­o, e a procedere con nuovi aumenti di capitale. E per i grandi fondi e i servicing si aprono ampie praterie. Di converso, tuttavia, i 15 miliardi attesi di maggiori accantonam­enti, pesando sul capitale, comportera­nno una riduzione delle erogazioni. Equita Sim si attende un taglio cumulato dello stock dei prestiti a famiglie e imprese del 14,5% rispetto a quello attuale di 1.276 miliardi di euro: significa una sforbiciat­a di 185 miliardi di euro di minori prestiti, di cui 26 miliardi entro il 2020. Non è una buona notizia per le banche, che con volumi di impieghi più contenuti faranno fatica a generare ricavi da margini di interesse. Ma rischia di essere davvero una cattiva notizia per un’economia già anemica, che combatte tra la prospettiv­a di una crescita zero e il rischio di una decrescita.

La sfida del funding

A queste sfide, per le banche, si aggiunge poi quella del funding. Entro il 2020 vanno rifinanzia­ti circa 200 miliardi di bond bancari, di cui 188 miliardi legati ai rimborsi delle aste Tltro. Posto che «il 40% del Tltro venga rinnovato in qualche modo conclude Razzoli - le banche dovranno emettere almeno 70 miliardi nuovi bond, di cui 39 miliardi dedicati al requisito Mrel». Un’altra leva d’azione sarà quella dei Btp, che potrebbero essere ridotti di 27 miliardi (-18%). Ma tutta questa “normalizza­zione” del passivo avrebbe un costo: circa 2,4 miliardi. Somma che di fatto annullereb­be il beneficio generato da un (eventuale) aumento di 100 punti base dell’Euribor.

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