Il Sole 24 Ore

COMBATTERE IL SISTEMA MAFIA NELLA TRINCEA DELLE PROCURE

- di Raffaella Calandra

Tutte le strade continuano a portare a Roma. Città aperta anche per le mafie. Roma, considerat­a «il futuro» da vecchi e nuovi boss; qui dove organizzaz­ioni criminali locali diventano geneticame­nte modificate, a contatto con clan tradiziona­li. Nella consapevol­ezza che la corruzione resta il principale problema, ma qui come altrove, «l’idea di legare indissolub­ilmente mafia e corruzione organizzat­a è falsa in punto di fatto ed è estremamen­te pericolosa ».

È diverso da quel lodi Palermo, Reggio Calabria o Napoli, ma anche quello di Roma è uno dei «Modelli criminali», con cui l’Italia deve fare i conti, nel contrasto alle «mafie di ieri e oggi», sottotitol­o del saggio di Giuseppe Pignatone e Michele Prestipino: il primo procurator­e della Repubblica di Roma; il secondo, procurator­e aggiunto, insieme da anni nella caccia ai latitanti di Cosa nostra, nella lotta alla ’ndrangheta, quindi ai gruppi criminali della capitale. Sotto al Cupolone, dove tutto si mescola, può succedere che un trafficant­e di Tor Bella Monaca inviti il quartiere alla festa di compleanno, con tanto di torta col disegno delRol ex, perché« per gestire la piazza di spaccio compra la droga o da ‘ndrangheti­sti o da camorristi che vivono a Roma». E allora proprio come nei feudi di ‘ndrangheta o camorra, questi simboli servono a rafforzare l’identità e creare consenso. Soprattutt­o in periferie, sempre più trascurate. Alla luce della loro esperienza - delle alterne pronunce nell’inchiesta sul “Mondo di Mezzo” e di decine di sentenze su quelle che la Cassazione ha definito «piccole mafie» - i due magistrati provano allora a rispondere anche alla domanda da subito rivolta loro: «C’è la mafia a Roma?».

«Roma non è dominata dalle mafie», scrivono, ma a Roma «lavorano tutti e tutti fanno i soldi», per dirla con uno dei protagonis­ti delle vicende di Ostia. Roma, dunque, territorio complesso anche sotto il profilo criminale. E «sbaglia chi continua a dire che le associazio­ni operanti nel Lazio non sono mafiose », notano le due toghe, che indirettam­enterispon­dono anche a mesi di polemiche, da parte di chi vedeva solo dei «cravattari» nella banda di Massimo Carminati, principale imputato nel processo Mondo di mezzo, condannato in appello per associazio­ne mafiosa. Le mafie hanno sempre fatto ricorso alla corruzione, ma proprio per quest’indagine romana la Cassazione ha riconosciu­to che «una sistematic­a attività corruttiva può determinar­e

PIGNATONE E PRESTIPINO RACCONTANO GLI INTRECCI CRIMINALI DELLA CAPITALE

l’acquisizio­ne della forza intimidatr­ice che caratteriz­za le organizzaz­ioni mafiose, purché vi sia una riserva di violenza. Ma mafia e corruzione restano fenomeni diversi e non necessaria­mente collegati». Fenomeni pericolosi per le economie, in termini di impoverime­nto del sistema, ostacolo alla crescita, costi aggiuntivi. E soprattutt­o nella «fase attuale di debolezza della politica », re tic or rutti ve estese diventano particolar­mente insidiose. Proprio come la mafia, che c’è e non solo nelle aree di origine; i due magistrati la sannoricon­oscere molto bene, ma proprio i tanti anni in trincea rafforzano Pignatone e Prestipino nella consapevol­ezza che «lo strumento giudiziari­o non può risolvere problemi sociali ed economici». L’analisi dei vari modelli criminali diventa allora anche l’analisi della contaminaz­ione dell’economia legale da parte di capitali illeciti. Un contagio, che mette in pericolo la stessa vita democratic­a, ma che sempre più spesso si prova a bloccare con approcci più conservati­vi nei confronti delle aziende, più selettivi, rispetto ai classici strumenti di sequestro e confisca, troppe volte diventati motivo di morte per imprese passate allo Stato. Un diverso approccio, reso necessario anche per i casi di società che «non sono mafio- se, ma hanno rapporti con la mafia. Così come di imprese che non vivono solo di corruzione, ma che accettano un quantum di corruzione».

Da Milano a Roma a Palermo, le cronache registrano decine di casi di multinazio­nali e banche in rapporti con la ’ndrangheta o di società in contatto con Cosa Nostra; o storie dico operative collegate all’ organizzaz­ione mafiosa romana. A volte, solo per settori marginali. Forme di «inquinamen­to mafioso che non giustifica­no sequestro e confisca, ma che possono essere curate, con la rimozione di dirigenti collusi, cambiando fornitori e subappalta­tori, intervenen­do sul modello organizzat­ivo». Con un paradigma terapeutic­o, cioè, finalizzat­o a salvare imprese di per sé sane, ma condiziona­te dalla criminalit­à organizzat­a. E anche così è cambiata al Sud la percezione della mafia. E dello Stato. Che «è stato e sarà sempre più forte», concludono Pignatone e Prestipino. Soprattutt­o se anche verso i criminali mostra il volto migliore. Sempre «nel rispetto delle regole», che era la «preoccupaz­ione - per non dire l’ossessione – di Leonardo Sciascia». Proprio come dei due magistrati, siciliani come lui e studiosi di modelli criminali.

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