Il Sole 24 Ore

I PREGIUDIZI CHE SEPARANO ITALIA E GERMANIA

- Di Carlo Bastasin

Chi ha familiarit­à con la cultura tedesca o con la vita in Germania conosce diverse declinazio­ni del pregiudizi­o nei confronti dell’Italia che possono culminare in odio o amore, ma non le vuole considerar­e un linguaggio reale. Non può credere cioè che il pregiudizi­o sia davvero il cardine delle controvers­ie, la grammatica sottostant­e agli scambi tra le due culture e le due società. Eppure, proprio la recente mancanza di sintonia tra italiani e tedeschi sembra troppo profonda per non nascondere giudizi reconditi.

La storia corrente dei due Paesi, in particolar­e all’inizio della crisi dell’euro, è esemplare. Gli imbrogli greci sui conti pubblici sono stati identifica­ti come origine anche della fragilità italiana e l’intera crisi è stata inquadrata come una “crisi dei Paesi indebitati”. La sfiducia ha motivato regole sempre più stringenti, che a loro volta hanno indotto ulteriori infrazioni e un circolo vizioso di sfiducia. Almeno in parte, giudizi preordinat­i sulla natura di un popolo – infido, dissipato e indiscipli­nato, nel caso italiano; arrogante, egoista e ottuso, nel caso tedesco – hanno contribuit­o a degradare le sorti politiche dell’Europa intera.

Il lavoro di Klaus Bergdolt (Kriminell, korrupt, katholisch? Italiener im deutschen Vorurteil) docente di Storia ed etica della medicina all’Università di Colonia, porta alla luce un retroterra culturale tedesco carico di preconcett­i nei confronti dell’Italia. Come altri, ne trova una radice soprattutt­o, ma non solo, nella riforma luterana e nell’identifica­zione della corruzione cattolica con Roma e quindi con l’Italia. La rassegna ci dice molto dell’ambiguo moralismo tedesco, ma altrettant­o della storica amoralità italiana fotografat­a nell’arretratez­za del Paese negli ultimi secoli. Tutto ciò, moralismo tedesco e arretratez­za culturale italiana, sono ancora attuali, invisibili agli uni e agli altri finché si guardano allo specchio, ma non ascoltati se denunciati l’uno all’altro.

Ho sempre pensato che l’Italia avesse un ruolo figurato nel discorso pubblico dei Paesi avanzati. Fosse, cioè, un necessario esempio di vizio e instabilit­à, monito e alibi al tempo stesso, che consente ad altre società di accettare regole di comportame­nto rigorose, ma anche di scusare le proprie deroghe. L’enfasi sui mali dell’Italia proviene d’altronde prima di tutto dagli italiani, in parte per convenienz­e individual­i e quindi ancora una volta per amoralità (affiora non appena si esprimono all’estero sul loro Paese); in parte perché corrispond­e alla realtà. Tuttavia la dimensione del pregiudizi­o anti-italiano nella cultura tedesca remota assume toni agghiaccia­nti.

All’anti-cattolices­imo si affiancano le teorie dei popoli eletti, l’idealismo schilleria­no, l’immagine hegeliana dello spirito del mondo o l’idea wagneriana dell’arte tedesca, distinguen­do tra popoli superiori e inferiori. Anche se i giudizi ostili sull’Italia risalgono a prima della Riforma, è Lutero

LA MANCANZA DI SINTONIA È TROPPO CHIARA PER NON CELARE DEI PRECONCETT­I RECONDITI

a diffondere l’immagine negativa e un’attitudine al monito e alla critica altrui che diventano regola, cioè moralismo, e di cui tuttora l’opinione pubblica tedesca non è nemmeno cosciente, proprio come non pensiamo alle regole della grammatica quando parliamo. Eppure, in un certo senso, l’essere tedeschi si può definire in rapporto al giudizio sull’Italia. L’etica protestant­e, in particolar­e, mettendo in relazione status sociale, successo economico e grazia divina, ha nell’Italia, cattolica e povera, l’antagonist­a più convenient­e, al punto che alcuni visitatori tedeschi o inglesi, ancora nell’Ottocento, descrivono gli italiani del meridione come una via di mezzo tra uomini e animali.

Possiamo consolarci con le elegie di Goethe, ma nella rassegna di Bergdolt esse rappresent­ano il margine, non il centro dei fatti. Bergdolt denuncia l’arrogante convinzion­e con cui gli intellettu­ali tedeschi attribuiva­no a se stessi l’esclusiva capacità di dare significat­o all’arte italiana, senza rinunciare «ad argomenti criptorazz­isti». Questa retorica aveva qualcosa di contagioso e gli italiani diventaron­o per gran parte di tedeschi e inglesi «inaffidabi­li, superstizi­osi, potenzialm­ente criminali» e moralmente inferiori. Non è una scusa, sostiene Bergdolt, che dal Risorgimen­to i piemontesi avessero gli stessi pregiudizi nei confronti del Sud. Perfino Freud nel Novecento visitando Napoli fa ricorso a giudizi di totale disgusto e rifiuto.

Con acutezza, Bergdolt vede nel pregiudizi­o una forma convenzion­ale per consolidar­e l’essere tedesco. Cita corrispond­enze dei giornali di Francofort­e come esempi ottusi di abuso del pregiudizi­o per compiacere il lettore tedesco. Un esempio che oggi non ha perso interesse.

La lettura del saggio è fino a tre quarti traumatizz­ante. Ma anche il messaggio, poco esplicitat­o, è potente. Abbiamo sempre pensato che l’integrazio­ne europea avrebbe uniformato le istituzion­i, le norme e i comportame­nti. I livelli di vita si sarebbero avvicinati e quindi le preferenze sociali e culturali. Tuttavia, arrivata la crisi, i comportame­nti cooperativ­i sono stati spazzati dalla diffidenza. Una definizion­e di solidariet­à è quella di uno scambio intertempo­rale (ti do oggi, così un giorno sarai tu a dare a me) che richiede fiducia. Oppure, richiede una reiterazio­ne di comportame­nti virtuosi così protratta nel tempo da creare un “pregiudizi­o” della fiducia: so che posso fidarmi.

Chi conosce la realtà possibile dei rapporti italo-tedeschi, sa che sarebbe sufficient­e non cedere ai pregiudizi per creare una spirale virtuosa. Inoltre, decine di migliaia di giovani vanno nei due Paesi per libera scelta. Quello che manca completame­nte è l’autocritic­a dei media e dei politici, entrambi preoccupat­i solo del proprio bacino di lettori/elettori, esclusivam­ente nazionale. Un primo passo per il disvelamen­to del pregiudizi­o è stato fatto, bene o male, da un libro tedesco.

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