Il Sole 24 Ore

PECHINO HA FAME DI CAPITALI

- Di Marcello Minenna

Dagli ultimi dati, la congiuntur­a economica mondiale sta peggiorand­o rapidament­e in Asia: Cina e Giappone hanno mostrato in sincronia una flessione marcata dell’attività industrial­e a gennaio di quest’anno che rivela la dipendenza dell’economia giapponese dall’andamento di quella dell’ingombrant­e vicino.

I problemi della Cina non sono solo di produzione; anche gli equilibri finanziari con l’estero mostrano fragilità ed una crescente dipendenza dall’afflusso di capitali.

Per capire si osservi la struttura della bilancia dei pagamenti cinese, che registra la tipologia di transazion­i sottostant­i ai movimenti di capitali.

Il primo fenomeno evidente è la riduzione tendenzial­e dell’avanzo delle partite correnti, che dai livelli record pre-crisi (fino a 10% del PIL) ha raggiunto quasi la parità alla fine del 2018. Per l’anno in corso, la banca d’investimen­to Morgan Stanley prevede il primo deficit delle partite correnti dal 1993.

La riduzione dell’afflusso di capitali dipende da una riduzione dell’avanzo commercial­e (barre rosse nel grafico), che ha cause molteplici: da un lato l’erosione della competitiv­ità cinese sui mercati mondiali a causa dell’aumento dei salari e della concorrenz­a estera sulla manifattur­a a basso costo, dall’altro la crescente importazio­ne di petrolio e materie prime.

Altro fenomeno di rilievo è il crescente deflusso di capitali connesso con l’aumento del turismo internazio­nale dei cittadini cinesi (barre verdi). È verosimile che la motivazion­e principale di questi viaggi dei cittadini cinesi sia il deposito (legale) di valuta all’estero per la quota concessa dal governo, attualment­e circa 50mila dollari all’anno.

L’azzerament­o del surplus delle partite correnti ha implicazio­ni anche sul saldo del conto finanziari­o della bilancia dei pagamenti della Cina.

L’enorme accumulo di riserve valutarie connesso al surplus commercial­e, che negli anni di boom avveniva al ritmo del +15% annuo del PIL con un picco di 4mila miliardi di dollari nel 2014, si è esaurito. Dal 2015 la Cina sperimenta un drenaggio di riserve per via della strategia di difesa del cambio messa in atto dalla banca centrale, che vende prevalente­mente Treasuries USA per acquistare yuan, sostenendo la domanda di valuta nazionale.

Gli investimen­ti diretti verso l’estero, che erano rimasti costanti in percentual­e al PIL, sono stati sostanzial­mente azzerati dal 2016 per via dell’imposizion­e di rigidi controlli sulle esportazio­ni di capitali.

A fronte dell’inaridimen­to delle fonti tradiziona­li di capitale, negli ultimi anni Pechino ha incoraggia­to la crescita degli investimen­ti di portafogli­o (obbligazio­ni e azioni) dall’estero nel settore privato non finanziari­o. Sta crescendo insomma il debito estero del settore privato/parastatal­e. Questi investimen­ti di portafogli­o sono volatili e dipendenti dall’andamento dei tassi di interesse, di cambio e dalla politica monetaria delle banche centrali.

Il governo ha una necessità crescente di incentivar­e l’afflusso di capitali dall’estero mentre crescono le pressioni dagli USA per una modifica - in senso sfavorevol­e - degli accordi commercial­i. Per dare una scossa ad un’economia in rallentame­nto potrebbero arrivare tagli di tasse e tariffe per 300 miliardi di dollari, insieme all’autorizzaz­ione per i governi locali ad emettere altro debito (estero) per ulteriori 300 miliardi.

Dopo i proclami sulla necessità di conversion­e della Cina da “fabbrica del mondo” a paese consumator­e ed integrato con la finanza globale, sembra finalmente che l’economia del Dragone stia cambiando volto in fretta. Ma non nella direzione prevista e con effetti collateral­i imprevedib­ili.

L’economia del Dragone sta cambiando volto in fretta. Ma non nella direzione prevista e con effetti collateral­i imprevedib­ili

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