PECHINO HA FAME DI CAPITALI
Dagli ultimi dati, la congiuntura economica mondiale sta peggiorando rapidamente in Asia: Cina e Giappone hanno mostrato in sincronia una flessione marcata dell’attività industriale a gennaio di quest’anno che rivela la dipendenza dell’economia giapponese dall’andamento di quella dell’ingombrante vicino.
I problemi della Cina non sono solo di produzione; anche gli equilibri finanziari con l’estero mostrano fragilità ed una crescente dipendenza dall’afflusso di capitali.
Per capire si osservi la struttura della bilancia dei pagamenti cinese, che registra la tipologia di transazioni sottostanti ai movimenti di capitali.
Il primo fenomeno evidente è la riduzione tendenziale dell’avanzo delle partite correnti, che dai livelli record pre-crisi (fino a 10% del PIL) ha raggiunto quasi la parità alla fine del 2018. Per l’anno in corso, la banca d’investimento Morgan Stanley prevede il primo deficit delle partite correnti dal 1993.
La riduzione dell’afflusso di capitali dipende da una riduzione dell’avanzo commerciale (barre rosse nel grafico), che ha cause molteplici: da un lato l’erosione della competitività cinese sui mercati mondiali a causa dell’aumento dei salari e della concorrenza estera sulla manifattura a basso costo, dall’altro la crescente importazione di petrolio e materie prime.
Altro fenomeno di rilievo è il crescente deflusso di capitali connesso con l’aumento del turismo internazionale dei cittadini cinesi (barre verdi). È verosimile che la motivazione principale di questi viaggi dei cittadini cinesi sia il deposito (legale) di valuta all’estero per la quota concessa dal governo, attualmente circa 50mila dollari all’anno.
L’azzeramento del surplus delle partite correnti ha implicazioni anche sul saldo del conto finanziario della bilancia dei pagamenti della Cina.
L’enorme accumulo di riserve valutarie connesso al surplus commerciale, che negli anni di boom avveniva al ritmo del +15% annuo del PIL con un picco di 4mila miliardi di dollari nel 2014, si è esaurito. Dal 2015 la Cina sperimenta un drenaggio di riserve per via della strategia di difesa del cambio messa in atto dalla banca centrale, che vende prevalentemente Treasuries USA per acquistare yuan, sostenendo la domanda di valuta nazionale.
Gli investimenti diretti verso l’estero, che erano rimasti costanti in percentuale al PIL, sono stati sostanzialmente azzerati dal 2016 per via dell’imposizione di rigidi controlli sulle esportazioni di capitali.
A fronte dell’inaridimento delle fonti tradizionali di capitale, negli ultimi anni Pechino ha incoraggiato la crescita degli investimenti di portafoglio (obbligazioni e azioni) dall’estero nel settore privato non finanziario. Sta crescendo insomma il debito estero del settore privato/parastatale. Questi investimenti di portafoglio sono volatili e dipendenti dall’andamento dei tassi di interesse, di cambio e dalla politica monetaria delle banche centrali.
Il governo ha una necessità crescente di incentivare l’afflusso di capitali dall’estero mentre crescono le pressioni dagli USA per una modifica - in senso sfavorevole - degli accordi commerciali. Per dare una scossa ad un’economia in rallentamento potrebbero arrivare tagli di tasse e tariffe per 300 miliardi di dollari, insieme all’autorizzazione per i governi locali ad emettere altro debito (estero) per ulteriori 300 miliardi.
Dopo i proclami sulla necessità di conversione della Cina da “fabbrica del mondo” a paese consumatore ed integrato con la finanza globale, sembra finalmente che l’economia del Dragone stia cambiando volto in fretta. Ma non nella direzione prevista e con effetti collaterali imprevedibili.
L’economia del Dragone sta cambiando volto in fretta. Ma non nella direzione prevista e con effetti collaterali imprevedibili