Calcolare i costi del «non fare»: la carta di Conte per rinviare
Non siamo più a un mese fa (prima del voto in Abruzzo e Sardegna) quando sulla linea ferroviaria veloce Torino-Lione uno spazio di compromesso sembrava praticabile fra Lega e M5s sulla base di progetti alternativi o a scarto ridotto della Tav nelle diverse varianti: miniTav, ridimensionamento dei costi della tratta nazionale eliminando la nuova stazione di Susa o il collegamento con l’interporto di Orbassano, semplice potenziamento della linea storica.
Lo scontro nel governo, non solo fra Lega e M5s, ma anche con il ministro dell’Economia Tria (e il suo giusto richiamo al rispetto dei patti sottoscritti), è andato avanti a tal punto che oggi la questione si è ridotta al nocciolo essenziale: fare o non fare il tunnel di base italofrancese. «Essenziale» è il termine che ieri ha usato il sottosegretario a Palazzo Chigi, Giancarlo Giorgetti, per dire che la questione ineludibile è ormai quella. Non c’è più spazio, in sostanza, per fantomatici progetti alternativi. Nelle stanze che contano ora nessuno li sta proponendo o valutando: parla per tutti la secca smentita di Palazzo Chigi di venerdì sulla mini-Tav. È un esercizio inutile o forse dannoso perché alimenta ulteriori polemiche.
I progetti alternativi (di Tav o alla Tav) non servono a placare il durissimo confronto nel M5s, il cui oggetto è crudamente fare o non fare la Tav (quindi il tunnel di base) con modalità e toni più ideologici che mai. Né servono più a soddisfare il bisogno (soprattutto elettorale) leghista di dare risposte infrastrutturali serie (che non ci saranno mai senza il tunnel di base). La stessa crudezza - fare o non fare il tunnel - la si trova sul fronte di tutti quelli che chiedono la Tav. La mini-Tav appare ormai, in questa fase, solo un bluff logoro.
Considerazioni diverse si possono fare per l’altro strumento di confronto in campo, l’analisi costi-benefici bis. Ha il grande merito di fornire una fotografia più realistica e una base più concreta e razionale alla decisione politica di quanto facesse la prima analisi. E riapre la partita dei numeri, dando qualche spazio di mediazione in prospettiva futura al premier Conte. Ma è vero anche che in questo momento di furore ideologico l’analisi bis è utile solo per un nuovo rinvio o, se vogliamo, per mezze decisioni. Che potrebbero arrivare con il vertice della prossima settimana, se non prevarranno venti di crisi.
A giocare questa carta sarà Conte. Ora che i costi superano i benefici di 2,4 miliardi (e non di 7), resta da capire a quanto ammontino con precisione i costi del “non fare”. Sono i due numeri che vanno confrontati: quanto è il costo netto del “fare” e quanto quello del “non fare”.
Dalle analisi fatte per il “non fare” viene fuori una forchetta di costi possibili molto ampia, da 1,7 miliardi a 3,9. Una forchetta che non consente decisioni. Sarà facile per il premier dire che bisogna ridurre la forchetta e capire meglio - studiando clausole contrattuali e progetti di ripristino dei luoghi o di necessità di intervento sulle attuali linee - quanto costerebbe davvero non fare la Tav. Un’esigenza politica di chiarezza che può facilmente e utilmente tramutarsi in un espediente per prendere tempo almeno fino al voto europeo. E salvare così la vita del governo. Minacciata anche dallo sblocco dei bandi di gara di Telt. Anche lì, per evitare troppe tensioni sul ministro Toninelli, potebbe essere Conte a dare le indicazioni necessarie.