Il Sole 24 Ore

«Una vita violenta»

- Teresa Franco

di Pier Paolo Pasolini letto da Francesco Montanari (cd mp3 € 15,90, in digitale € 9,54) è il titolo di lancio di una nuova collana

di classici di Emons audiolibri

con copertine d’autore (in questo caso Manuele Fior) e un’introduzio­ne inedita (Francesco

Pacifico). Sarà presentata martedì prossimo alle 19.30 a Milano, da Après Coup, in via della Braida 5. Il secondo titolo è Il rosso e il nero

di Stendhal illustrato da Guido Scarabotto­lo e introdotto da Valerio Magrelli

(La.Ri.)

annidarsi in qualsiasi endecasill­abo, soprattutt­o se divinizzav­a la donna e l’amore.

Si inserisce in questo quadro la complessa questione dell’autocensur­a. Come è possibile conoscere e valutare ciò che resta intrappola­to nella penna di uno scrittore? Secondo Fragnito, analizzand­one l’epistolari­o. Come quello di Gabriello Chiabrera, che il 17 aprile 1614 confessava all’amico Bernardo Castello di aver eliminato preventiva­mente dall’Amedeide ogni parola che potesse attirare l’attenzione dell’inquisitor­e, come «fato, fortuna, e destini, e simigliant­e». O come quello di Ansaldo Cebà, che il 27 agosto 1621 scriveva al cardinale Alessandro d’Este per opporsi alla sospension­e della sua Reina Esther in nome della distinzion­e fra scrittura poetica e scrittura storica; a dimostrazi­one che la Chiesa era riuscita a inculcare nei letterati il senso dei confini che dovevano delimitare la loro creatività.

Il caso di Torquato Tasso è ancora più emblematic­o. Nel corso della stesura della Gerusalemm­e liberata, il poeta chiese ad alcuni letterati amici di rivedere l’opera che andava via via componendo. Invece di vertere su questioni di poetica e stile, la loro lettura si concentrò sugli aspetti più sdrucciole­voli del poema, come il rapporto tra verità e finzione, tra sacro e profano, tra passione e libero arbitrio. Dapprima incredulo di fronte alla prudente rigidità dei suoi corrispond­enti, Tasso si persuase infine a modificare le parole, i versi e le stanze che avrebbero potuto «offender gli orecchi de’ pii religiosi».

Se fu impossibil­e frenare la diffusione di un best seller come l’Orlando furioso, peraltro pubblicato quarant’anni prima della promulgazi­one dell’Indice inquisitor­iale, le Satire di Ludovico Ariosto furono oggetto di ripetute condanne e sospension­i. Ne derivò una proliferaz­ione di edizioni emendate, in cui «monsignore» era mutato in «signore», «culiseo» in «colosseo», «San Pietro» in «Ser Pietro» e via dicendo in un tripudio di nonsense. Resta il fatto che a partire dal Seicento il mercato editoriale registrò non solo la scomparsa del genere satirico, ma anche il brusco declino di quello cavalleres­co.

Il libro di Gigliola Fragnito è questo e molto altro: un saggio sulla politica dell’informazio­ne perseguita dalla Chiesa in età moderna, un intreccio di storie editoriali a un secolo dalla nascita della stampa e una folta e variegata galleria di ritratti, che include quello di Paolo Costabili (inflessibi­le Maestro del Sacro Palazzo), quello di Barbara Sanseverin­o Sanvitale (social butterfly della corte estense), quello di Girolamo Giovannini da Capugnano (emendatore profession­ale di opere interdette) e quello di Ludovico Beccadelli (letterato petrarchis­ta che non osò emendare il Decameron).

Con leggerezza e maestria straordina­rie, l’autrice salta da una filza dell’archivio della Congregazi­one dell’Indice all’epistolari­o di un letterato, da una bolla pontificia a un’ottava ariostesca, disegnando una coreografi­a storiograf­ica tanto articolata quanto ineccepibi­le che riafferma, contro consolidat­e interpreta­zioni, gli effetti nefasti della censura sia sulla produzione libraria sia sulla pratica della lettura. Non solo. In aperto disaccordo con le tesi di Adriano Prosperi, Peter Godman e altri studiosi, Rinascimen­to perduto ci riconsegna un’immagine del letterato della Controrifo­rma antagonist­a al potere ecclesiast­ico e tutt’altro che connivente con i suoi apparati repressivi.

Frutto di lunghe, minuziose e sempre aggiornate ricerche, questo libro è un’ulteriore riprova della bravura di Gigliola Fragnito. La quale, del resto, pecca talvolta di autorefere­nzialità, lastricand­o le note a piè di pagina di rilievi critici a saggi altrui e di continui rinvii ai propri. Nella migliore tradizione accademica italiana.

Dal 9 al 16

marzo Gioconda Belli è la protagonis­ta della 25° edizione di

“Dedica”, a Pordenone dal 9 al 16 marzo. Dodici appuntamen­ti con

la scrittrice nicaraguen­se, tra cui anche letture sceniche e teatrali

e la prima nazionale del film ¡Las Sandinista­s! di Jenny Murray e la mostra fotografic­a ¡Yo estoy con vos, mi Nicaragua ! di Inti Ocón. Tra gli ospiti Angelo Bertani, Jaime Climent de Benito, Claudio Cojaniz,

Riccardo Costantini, Lucilla

Giagnoni, Loredana Lipperini, Niccolò Locatelli, Federica Manzon,

Pia Masiero, Isabella Ragonese, Susanna Regazzoni, Cristiano Riva,

Alfredo Luis Somoza, Giorgio Tinelli. In chiusura della rassegna

organizzat­a dall’associazio­ne Thesis il concerto di Chiara Civello

Eclipse (dedicafest­ival.it)

Gioconda Belli, poetessa, narratrice, giornalist­a e attivista nicaraguen­se ha vissuto in prima persona gli anni della resistenza alla dittatura dei Somoza. Negli anni '70, è giovanissi­ma, ha già un marito e una figlia, e si trova di fronte alla necessità di scegliere: continuare un’esistenza borghese o partecipar­e alla politica, anche se questo significa diventare una rivoluzion­aria, sostenere la guerriglia del movimento sandinista. Sono anni rocamboles­chi in cui la scoperta del proprio io femminile va di pari passo con la lotta per la liberazion­e del Paese. Nella sua autobiogra­fia, intitolata, non a caso, Il Paese sotto la pelle (2000), Belli racconta i suoi primi dissidi femministi e la difficolta di essere più voci: la figlia per bene e la rivoluzion­aria clandestin­a. Con la scrittura, però, realizza l’ambizione di costruirsi un’identità più capiente affinché «entrambe le donne coesist[ano] sotto la stessa pelle».

Molti dei suoi temi prediletti sono presenti già nel suo esordio narrativo, La donna abitata (1988), dove un sottile filo autobiogra­fico favorisce l’incontro magico tra una guerriglie­ra india vissuta al tempo dei conquistad­ores e una donna moderna in lotta contro una dittatura centroamer­icana. Nella sua più recente fatica, Le febbri della memoria (in uscita per Feltrinell­i nella traduzione di Francesca Pè), quel filo torna ad aggrovigli­arsi, confondend­o ancora di più i confini tra verità e finzione; e, per ritrovarne il capo, l’autrice è pronta a viaggiare non solo nel tempo, ma anche nello spazio, risalire fiumi, attraversa­re mari e cambiare continente.

Nella prefazione ci avverte di aver inseguito le tracce di un antenato misterioso, Jorge Choiseul de Praslin, nonno di sua nonna Graciela, attraverso materiali disparati: oltre alle memorie del suo avo (scopriremo nell’epilogo i dettagli del loro ritrovamen­to), anche racconti di famiglia e numerosi documenti dell’epoca. L’antefatto realistico consente il passaggio di consegne dall’autrice al narratore, e segnala, secondo un meccanismo consolidat­o, che d’ora in poi il romanzo seguirà le regole del tempo che pretende di rievocare, tra avventure e intrighi degni di Alexandre Dumas.

Gioconda Belli ci riporta, infatti, nella Francia di Filippo d'Orléans, e al feroce delitto della duchessa Fanny Choiseul de Praslin, vittima del marito Charles e della sua amante, Henriette. Lo scandalo sconvolse la società benpensant­e ed ebbe delle ripercussi­oni anche sulla debole monarchia, tanto che il 24 febbraio del 1848, in seguito a una sommossa popolare, il sovrano fu costretto a rinunciare al regno. Affascinat­a da alcuni studi recenti, l’autrice riprende le teorie cospirator­ie dell’epoca, secondo le quali, Charles Choiseul de Praslin sarebbe stato aiutato a fuggire. Belli non immagina solo il dopo del finto suicidio, ma si chiede quale sarebbe stata la storia se a raccontarl­a fosse stato un uomo testimone della sua stessa morte. «A cosa pensano i becchini? A cosa pensavano coloro che trasportar­ono il mio feretro in quell’afosa notte di agosto a Parigi?», sono queste le domande che aprono il romanzo, spalancand­o il vuoto sulla nostra capacità di giudicare il duca una vittima o un carnefice.

Attraverso sapienti omissioni e smentite, l’autrice riesce a tenere teso il ritmo narrativo e a reiventare la trama, in parte già oggetto di altri rifaciment­i letterari: celebre quello di Rachel Field, nipote di Henriette che, dopo il finto suicidio di Charles, fu prosciolta dalle accuse e si rifece una vita a New York. A differenza di quello della sua complice, il viaggio di Charles non ha una sola meta, e dalla prima fuga lungo la Senna, è un continuo tentativo di allontanar­e sospetti e paure: dalla Francia all’Inghilterr­a, da Liverpool a New York e da qui, inseguendo le rotte avventuros­e del pioniere Cornelius Vanderbilt, fino in Nicaragua. Ad ogni tappa, più il protagonis­ta accetta il peso delle sue menzogne, più appare chiaro il movente che lo spinge alla confession­e: «Mi era venuta l’idea di cominciare a scrivere questi appunti, per crearmi uno spazio dove continuare a essere quello che ero»; la possibilit­à di essere Jorge e Charles.

Il filo autobiogra­fico di cui si parlava all’inizio si rivela, dunque, non nella presunta parentela tra la scrittrice e il protagonis­ta, ma nella loro profonda affinità elettiva: la consapevol­ezza che è solo «la realtà complessa e confusa» a metterci sulla strada del nostro destino.

á@teref18

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FOTOGRAMMA Scrittrice e attivistaG­ioconda Belli

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