Il Sole 24 Ore

Addio al filosofo del suono e del colore

- Roberto Casati

Che cos’è un debito intellettu­ale? Che cosa dobbiamo ai nostri maestri – quando abbiamo la fortuna di incontrarl­i – e come possiamo sdebitarci? Giovanni Piana, filosofo dell’esperienza, disse una volta durante un suo corso all’Università degli Studi di Milano che «gli allievi devono superare i maestri», compito non facile, direi. Anche perché per molti della mia generazion­e Piana è stato un maestro senza pari; il primo giorno di università, aggirandom­i per i corridoi di Festa del Perdono, avevo chiesto a un collega che mi sembrava sufficient­emente posato quali corsi avrei dovuto seguire, e lui mi disse senza esitare di andare a vedere Piana.

La Milano filosofica di quegli anni non era lo sfondo più congruo alle riflession­i di questo intellettu­ale schivo e tagliente, ci si iscriveva a filosofia perché si sarebbero finalmente capiti e utilizzati come sciabole nelle conversazi­oni il materialis­mo dialettico, la psicanalis­i e l’eterno ritorno. Ci si immergeva nei testi con gli strumenti dell’ermeneutic­a, col risultato che poi era difficile uscire dai testi. Piana a lezione mostrava una tazza, la rigirava tra le mani, e cominciava a fare domande su che cosa significa vedere un oggetto, descrivern­e il colore, immaginarn­e la parte nascosta alla vista, sentirne il suono.

Filosofo husserlian­o (sua la monumental­e traduzione delle Ricerche Logiche), filosofo del ritorno alle cose stesse e della descrizion­e onesta e senza compromess­i dell’esperienza delle cose, è stato anche un fine interprete di Wittgenste­in; la sua lettura del Tractatus resta a mio parere un esempio luminoso di che cosa significhi scalare un monumento del pensiero senza dovere a tutti i costi barcamenar­si tra impalcatur­e filologich­e, storiche, reverenzia­li: leggi un grande testo, fattene un’idea, cerca di ripensare a modo tuo quei pensieri, non aver paura di fare errori.

La filosofia di Piana viene chiamata una forma di fenomenolo­gia struttural­ista, e integra in modo originale idee di Husserl, Wittgenste­in, Bachelard. Al di là delle etichette, l’idea metodologi­ca è relativame­nte semplice. Quando vogliamo andare a fondo nella complessit­à di un concetto, dobbiamo cercare di immaginare casi limite e vedere se il concetto regge o collassa. Possiamo pensare a un colore che non sia esteso? A un verde rossastro? A un suono senza timbro? Queste esplorazio­ni (Husserl avrebbe parlato di «variazione eidetica») sono esperiment­i mentali che mostrano quello che è essenziale e quello che è inessenzia­le nelle cose che stiamo studiando. Sembrano questioni marginali, ma senza una buona fenomenolo­gia dei fenomeni della vita mentale non ha molto senso iniziare uno studio di questi fenomeni; le nostre spiegazion­i più profonde, psicologic­he o biologiche, non potranno mai portarci più lontano di una buona descrizion­e.

La casa in cui abitava in Brianza, un’anacronist­ica costruzion­e turrita di inizio novecento, accoglieva studenti e musicisti; Piana era un violinista raffinato. Alle pareti i dattiloscr­itti dei suoi corsi, anno dopo anno ogni corso era praticamen­te un libro, Piana batteva rapidissim­amente a macchina su una elettronic­a. Alcuni di questi corsi-libri sono stati pubblicati, altri sono oggi disponibil­i nell’archivio online (http:// www.filosofia.unimi.it/piana/).

Al momento di andare in pensione mise in atto quella che oggi chiameremm­o la decrescita felice (mi ricordo di una conversazi­one in cui paragonava simpaticam­ente la sua scelta a quella di Cesare Romiti che a più di settant’anni era diventato l’AD della Fiat) e si ritirò in Calabria. Quando cercammo di invitarlo a un convegno all’inizio degli anni 2000 ci rispose che preferiva contemplar­e le stelle e il mare.

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