Il Sole 24 Ore

TROPPE MAIUSCOLE, CARO LARS

- Roberto Escobar

La signora (Uma Thurman) dice una sciocchezz­a dopo l’altra. L’auto le si è bloccata in mezzo alla campagna per una foratura, e il suo cric è rotto. Con il suo furgone, Jack (Matt Dillon) sta portando controvogl­ia lei e il cric da un meccanico. Ma quella, strafotten­te e petulante, non smette di irritarlo. Potresti essere un assassino seriale, gli ripete. A un tratto cambia idea: no, non puoi, hai una faccia da mollaccion­e. E il mollaccion­e, veloce come un lampo, le apre la fronte con il cric. In inglese cric si dice jack… Nella sostanza, questo è il primo dei «cinque incidenti in dodici anni» che Lars Von Trier illustra in ordine temporale sparso nel suo La casa di Jack (The House That Jack Built, Danimarca, Francia, Germania, Svezia e Belgio, 2018, 155’). Gli altri quattro incidenti vedono il suo jack/Jack – o cric/Jack – indaffarat­o con povere signore indifese (ma tutte molto meno importune della prima) e, da ultimo, con le teste di sei o sette signori legate per il collo su una barra orizzontal­e. L’ambiente è una cella frigorifer­a. Lì conserva i corpi delle sue vittime, per lo più congelati ad arte in pose che ama definire artistiche, appunto.

Nel frattempo – cioè nelle (ahinoi) due ore e trentacinq­ue minuti del film – due voci fuori campo disquisisc­ono di filosofia ed estetica. Una, ovvia, è quella di cric/Jack. L’altra è di tale Verge (l’incolpevol­e Bruno Ganz, qui purtroppo alla sua ultima interpreta­zione). Chi sia Verge è questione che rimane dubbia solo per una decina di minuti, ma non la sveleremo, se non nei limiti resi necessari dalla chiarezza critica. Il cric/ Jack di V on Triere della cosce neggi atri ceJenl eH allund ha molte certezze. È certo che un architetto non sia un ingegnere, e inversamen­te. È certo che la decomposiz­ione dei corpi, acini d’uva o membra umane, produca opere d’arte. È certo che Glenn Gould gli sia collega, quello con pianoforte e pentagramm­a, lui con coltello, fucile e cella frigorifer­a. Ed è certo che nel negativo delle pellicole stia il meglio della fotografia (e del cinema), in quanto in esso si mostra «il lato oscuro della luce». Se non è profonda, la battuta è almeno è ben trovata. Un po’ come un certo rimuginare a proposito di lampioni, camminator­i e ombre che si allungano e si accorciano, a illustrazi­one della pulsione ciclica a uccidere e massacrare di cric/Jack, il cui prezzo poi le sue vittime pagano. E come la pulsione ciclica di Von

«la casa di Jack» di Lars von Trier Matt Dillon è Jack

Triera girare film, che poi pagano taluni critici che di lampioni, ombre e battute ben trovate farebbero volentieri a meno.

Ma passiamo ad altro. Non a un coltello ficcato da sotto in su tra le mandibole di un tale, e bene inquadrato in mezzo alla chiostra dentaria. Neppure a un seno tagliato con perizia, e poi conciato a mo’ di borsellino. Passiamo invece a Verge, e al suo condurre cric/Jack lungo il più definitivo dei cammini. Essendo uomini “studiati”, parlano come libri stampati. Filosofia, estetica, storia, architettu­ra, Auschwitz, Albert Speer, grandi vini da dessert, cadaveri marci, e naturalmen­te bene e male. Anzi, Bene e Male, con la maiuscola. Non sia mai che, tra un lampione e l’altro, tra un’ombra che s’allunga e una che s’accorcia, Von Trier cada nel peccato d’ingenuità di una minuscola. Per fortuna, in fondo al cammino dei due c’è una profonda voragine di fuoco. Lì il film finisce. Se non lo facesse, daremmo anche noi mano a un cric.

P.S. Una nota di luce e di ottimismo. Von Trier racconta cinque incidenti in dodici anni, per fortuna non dodici in cinque.

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