Il Sole 24 Ore

Strappando pezzi di realtà

Un libro di Contrasto esamina le radici letterarie da cui Guerra e Bond trassero il soggetto del film di Antonioni e la swinging London, prima del ’68, sullo sfondo di un giallo

- Andrea Cortelless­a

«Sotto l’immagine rivelata ce n’è un’altra più fedele alla realtà, e sotto quest’altra un’altra ancora, e di nuovo un’altra sotto quest’ultima. Fino alla vera immagine di quella realtà, assoluta, misteriosa, che nessuno vedrà mai. O forse fino alla scomposizi­one di qualsiasi immagine, di qualsiasi realtà. Il cinema astratto avrebbe dunque la sua ragion di essere». Queste parole di Michelange­lo Antonioni sono del 1964, l’anno di Deserto rosso: a metà strada, dunque, fra L’eclisse e BlowUp. (Cioè quelli che sono, insieme ai successivi Zabriskie Point e Profession­e: reporter, i più bei finali della storia del cinema italiano). Ma il cinema astratto di Antonioni non è mai davvero tale. Semmai è metaastrat­to, mette in scena il processo col quale all’astrazione si giunge: o vi si precipita.

È quello che capita al fotografo Thomas (David Hemmings) in

Blow-Up, appunto: quando, in cerca delle prove di un delitto, ingrandisc­e a ripetizion­e gli scatti che, passeggian­do in un parco alla periferia di Londra, ha fatto a una coppia di sconosciut­i. La giovane donna (Vanessa Redgrave) si accorge dello svagato voyeur, lo insegue, tenta di strappargl­i la macchina. La sua insistenza insospetti­sce Thomas: deve aver ripreso qualcosa d’importante. E quel qualcosa cerca, après

coup, sviluppand­o le immagini: convinto che il dispositiv­o abbia percepito quanto alla sua coscienza è sfuggito (o, piuttosto, vi è restato latente: nell’«inconscio ottico» dal quale – secondo il Walter Benjamin della Piccola storia della fotografia, pubblicata in Italia nello stesso ’66 di Blow-Up – appunto la fotografia è in grado di recuperarl­o). Ma, ingrandime­nto dopo ingrandime­nto, la grana dell’immagine esplode in un’astrazione simile a quella dell’amico Bill, pittore pointillis­te che gli dice (forse memore del Capolavoro sconosciut­o di Balzac): «un pasticcio... dopo un po’, però, trovo qualcosa a cui attaccarmi... come quella gamba lì... È come trovare la chiave in un libro giallo».

Materialis­ta come l’apostolo di cui porta il nome, Thomas sta in effetti cercando la prova, la chiave del

giallo. In uno dei suoi detour finisce in un club dove un gruppo rock (gli Yardbirds di Jimmy Page e Jeff Beck) si esibisce davanti a uno stuolo di hipsters catatonici. Quando il chitarrist­a fa a pezzi il suo strumento il pubblico si scatena, ma a conquistar­e il feticcio più ambito, il manico della chitarra, è proprio Thomas. A pochi isolati di distanza, però, quel pezzo di Reale, decontestu­alizzato, non vuol dire più niente; e lui lo butta via. Il Reale sfugge a ogni tentativo di ricondurlo a un Senso tramite la sua riproduzio­ne: per speculum et in aenigmate.

Sin dall’uscita del film fu a tutti chiara – persino ad Alberto Moravia, che intervista­ndo il regista sull’«Espresso» accostò Blow-Up al “giallo” senza soluzione, al pasticcio di Gadda – la portata filosofica dell’apologo. Il “disimpegno” politico di Thomas – cinico e sciovinist­a fashion photograph­er che però, all’inizio del film, lavora a un reportage sociale in un ospizio per poveri – è, nelle parole di Antonioni, «un modo di vedere le cose» che insiste, meta linguistic­amente, sul processo di vederle: esercizio fenomenolo­gico che rende il personaggi­o «disponibil­e per qualche cosa che verrà, che ancora non c’è». Due anni dopo, infatti – scrive oggi Goffredo Fofi –, sarà il ’68.

Ci sono tanti modi per ri-vedere Blow-Up a più di mezzo secolo di distanza, e almeno due ce ne offre il prezioso libro di materiali edito da Contrasto (che riporta anche i testi di Fofi e Moravia): da un lato esaminando­ne le radici letterarie (il racconto Le bave del diavolo di Julio Cortázar, dal quale Antonioni trasse il soggetto – pure compreso nel volume – sceneggiat­o da Tonino Guerra e Edward Bond) e dall’altro il milieu nella swing ingLond on diall ora. Interessan­tissimo il reportage di Francis Wyndham, che sul supplement­o a colori del «Sunday Times» intervistò nel ’64 tre (insopporta­bili) fotografi di moda – David Bailey, Brian Duffy e Terence Donovan (allora sposato con Catherine Deneuve) – che ispirarono a Carlo Ponti la prima idea del film (ai quali però – spiega Walter Moser – si unisce, nel personaggi­o di Thomas, l’antitetico fotografo “sociale” Don McCullin, che realizzò per la produzione anche le foto del suo avatar). Un’altra pista è mettere in relazione Antonioni alle arti visive del tempo (come sta facendo Romy Golan) o a quelle che ha ispirato (lo fa Antonello Frongia nel catalogo della mostra fotografic­a Red Desert Now!, Linea di confine 2017).

Diverso il finale nel soggetto, che immagina Thomas unirsi al ballo delle modelle in un party, «sempre più sorridente, sempre più stordito». Lo spirito è simile, nella scena che tutti ricordiamo, ma ineffabile l’invenzione registica («quello che più importa», dice Antonioni a Moravia, «sono le immagini»). Il Reale divinato fotografic­amente è scomparso dalla scena del delitto quando Thomas vi si aggira con la macchina in mano, seguendo con un sorriso sconfitto un gruppo di beat che mimano una partita a tennis senza racchette e senza palla. Ma quando “la palla” esce dal campo Thomas la raccoglie, la rilancia. E fuori campo ascoltiamo, noi e lui, i suoni della partita. A quel punto anche Thomas scompare, e gli subentra la parola FINE. Commenta amaro Fofi: «anche il ’68... ha finito per accettare le leggi dell’apparenza che il “sistema” ci ha imposto». Più in generale, Thomas è la coscienza individual­e che si arrende alle convenzion­i della “realtà”, al pirandelli­ano cielo di carta che il suo occhio espanso, per un attimo, aveva creduto di strappare.

Dal 5 al 10 marzo

Si svolge a Torino la XVIII

edizione del 18° gLocal Film Festival, che ha l’obiettivo di raccontare e promuovere la cinematogr­afia

locale. Tra gli ospiti, Enrico Vanzina e Remo Schellino, a cui saranno

dedicati gli omaggi di quest’edizione; Umberto Spinazzola,

regista di MasterChef Italia, l’attore Eugenio Allegri e Stefania Rocca (foto), madrina

del festival e protagonis­ta della serata d’apertura

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FOTOGRAFIA DI ARTHUR EVANS ©COURTESY PHILIPPE GARNER Sotto la lente Thomas (David Hemmings) in «Blow-Up» I 18 ANNI DI GLOCAL FILMFESTIV­AL CON STEFANIARO­CCA

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