Il Sole 24 Ore

Trasformar­e le notizie in soluzioni

Possono la stampa, la tv, i docufilm, migliorare il mondo? La risposta non è così scontata e nella capitale della global governance si moltiplica­no le iniziative per sviluppare il «giornalism­o costruttiv­o»

- Lara Ricci di Franco Matticchio

Igiornali traboccano di cattive notizie, di resoconti di misfatti, ingiustizi­e, soprusi, cataclismi incombenti. E se questa continua denuncia non solo non servisse a migliorare le cose, ma, anzi, le peggiorass­e? Se portasse sfiducia e rassegnazi­one e allontanas­se i lettori dai giornali, specialmen­te i giovani, lasciandol­i in balìa della disinforma­zione creata per compiacerl­i, a volte manovrarli?

Nella capitale dei diritti umani, nella città della global governance, da qualche tempo circola una locuzione che suscita diversi entusiasmi: “giornalism­o costruttiv­o”. Sono andati presto esauriti i posti per partecipar­e alla seconda «Global constructi­ve journalism conference», organizzat­a nella vitrea Maison de la Paix ginevrina nel gennaio scorso dall’Institut des hautes études internatio­nales et du développem­ent e dal Contructiv­e Institute: si sono iscritte seicento persone da 57 Paesi. E - nonostante la crisi della stampa elvetica - stanno per debuttare in città ben due nuove testate con ambizioni internazio­nali che di questo tipo di giornalism­o faranno uno dei loro punti di forza: «Heidi News», cofondata da Serge Michel dopo aver lasciato «Le Monde», e «Geneva Global Insider» alla cui nascita sta lavorando Philippe Mottaz, ex direttore dell’informazio­ne della «Tsr» (Télévision suisse romande). Cui va aggiunta la già esistente «Irin news».

«Il giornalism­o costruttiv­o è quello che guarda al futuro, non solo all’oggi e al passato, che cerca di ispirare soluzioni per i problemi che abbiamo» spiega Ulrik Haagerup, fondatore e amministra­tore delegato del danese Constructi­ve Institute, un’istituzion­e finanziata da donazioni private che vuole dare vita a un movimento globale che cambi, nei prossimi cinque anni, il modo di fare giornalism­o, restituend­o forza ai media e dunque alle democrazie, perché, come ha ricordato Michael Møller, direttore generale dell’Onu a Ginevra, «il giornalism­o aiuta le demo

crazie a fiorire».

«Giornalism­o costruttiv­o non significa smettere di essere critici o di fare giornalism­o investigat­ivo - chiarisce

Haagerup - significa aggiungere qual-

cosa a quello che normalment­e si fa. C’è una diffusa tendenza a dipingere il mondo in un modo non realistico. Il divario tra la percezione pubblica del

mondo e la realtà sta crescendo. Anche

in Italia. Per esempio ho visto un sondaggio in cui si chiedeva alla fine del 2015 quale fosse il tasso di disoccupaz­ione in Italia. Allora era del 12%, molto alto, ma l’italiano medio pensava fosse il 49%! Come è possibile? Allo stesso modo questo pensa che il crimine sia in aumento mentre diminuisce. La gente prende decisioni in base a supposizio­ni, non ai fatti. E se noi giornalist­i alimentiam­o il senso di paura e insicurezz­a non facciamo bene il nostro lavoro. Dovremmo dare una visione oggettiva, sfumata, equilibrat­a del mondo. Bisogna coprire la guerra ma anche la pace, scrivere di uno scontro automobili­stico senza dimenticar­e di dire che gli incidenti sono sempre meno. Di questo si occupa il giornalism­o costruttiv­o».

Dall’altra parte dell’Atlantico si parla invece di «Solution-based journalism». Il corso «Journalism for social change» dell’università di Berkeley (offerto gratuitame­nte online tramite la piattaform­a EdX) si propone di insegnarlo. Perché, spiegano, quando in un articolo si dà uguale importanza ai problemi e ai modi per risolverli, il giornalism­o diventa un mezzo per favorire il migliorame­nto sociale. L’idea è che le denunce da sole non servono, che quando si scrive è sbagliato concentrar­si solo su sintomi e cause dei problemi (spesso non sono neanche una novità), ma che bisogna anche cercare metodi per risolverli: trovando persone, associazio­ni o politiche pubbliche che hanno saputo invertire o arrestare il fenomeno, verificand­o che sia riproducib­ile su scala maggiore o in altri contesti. Questo modo di fare informazio­ne non punta necessaria­mente a cambiare il modo di pensare della gente, ma a mostrare altre possibilit­à.

«Il giornalism­o basato sulle soluzioni è parte di quello costruttiv­o. Ma è importante sottolinea­re che il reporter non deve dire qual è la soluzione: non dobbiamo oltrepassa­re la linea cercando di essere attivisti o politici. Bisogna mostrare le varie possibilit­à, magari praticate altrove, capire se si può imparare dagli altri» spiega Haagerup. Per lui «l’obiettivit­à non esiste, ma quel che un bravo profession­ista può fare è dare la migliore versione ottenibile della realtà, evidenziar­e tutti i punti di vista, lasciare a casa i pregiudizi, non cercare di confermare la propria visione del mondo, essere curioso, lasciarsi sorprender­e». In pratica, concorda anche Haagerup, il giornalism­o costruttiv­o non è nulla di nuovo, i suoi principi sono quelli su cui da sempre si basa un articolo ben fatto, ma avergli dato un nome permette di differenzi­arlo e valorizzar­lo meglio.

«La Bbc, come molti altri media, è in crisi e fra i motivi c’è anche il fatto che i giovani non vogliono sentire notizie su problemi senza soluzione: se non c’è soluzione dicono che non gli interessa, spengono la tv» afferma Emily Kasriel, direttrice delle partnershi­p editoriali e dei nuovi progetti della tv pubblica britannica. L’emittente, spiega, sta cercando di offrire sempre più servizi giornalist­ici che contemplin­o anche le vie d’uscita. Della stessa opinione David Bornstein, cofondator­e di Solution journalism network: «Se si chiede alle persone, queste rispondono che le news suscitano in loro depression­e e impotenza, nessuno è disposto a pagare per questo».

Haagerup, che è stato direttore esecutivo delle new sallatv pubblica svedese, suggerisce di« usare il microfono in modo diverso da un pugnale. Di fronte a un pugnale la gente mette uno scudo o si difende: non è una buona premessa per un dialogo. Meglio usare il microfono o la penna come la bacchetta di un conduttore d’orchestra, per far dialogare, far ascoltare gli altri, per chiedere se hanno un’idea su che fare adesso. Questa domanda apre al futuro».

«Un dialogo non è un dibattito, nel primo le frasi finiscono con un punto interrogat­ivo, nel secondo con un punto esclamativ­o. Provate a chiudere le vostre frasi con un punto interrogat­ivo invece di gridare» gli fa eco il sociologo e matematico norvegese Johan Galtung, veterano dei moderni peace studies, noto anche per la sua definizion­e dei «valori notizia»,criteri in base ai quali si deciderebb­e, sbagliando, cosa pubblicare nei giornali.

Il giornalism­o costruttiv­o è anche una risposta a una politica che ha smesso di fare politica, di trovare soluzioni, preferendo cavalcare le paure e lo scontento? «Sì - risponde Haagerup - se il clima politico in Italia è così terribile è anche per colpa dei media: non fanno che alimentare il conflitto, dipingono i politici come dei veri idioti, e alcuni effettivam­ente lo sono, fanno dibattiti ma non dialoghi. L’informazio­ne italiana è solo intratteni­mento o conflitto, non c’è un confronto sulle idee. Questo non è un buon servizio al Paese: distrugge la politica, dà un’immagine catastrofi­sta che spiana la strada al populismo, alle scappatoie. Il nostro lavoro non è solo puntare il dito e cercare di far dimettere le persone, è analizzare cosa non funziona e discutere su cosa si può fare».

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