Il Sole 24 Ore

Imparare a ridere dei primi della classe

- Armando Torno

Sul carnevale si è scritto e detto talmente tanto che è impossibil­e trovare, per questa festa, altre parole. Forse ha ragione Bob Dylan quando canta in sintonia con l’era di Internet: «La comunicazi­one di massa ha trasformat­o New York in un grande spettacolo di carnevale». Aveva colto nel segno anche Piero Camporesi che nel saggio La maschera di Bertoldo ricordò l’antico ruolo «di contestazi­one, di rottura, di rigenerazi­one sociale vissuta in un tempo ciclico di morte e di resurrezio­ne, d’annientame­nto e di rinascita». Certo, non è semplice spiegare in tutte le loro significaz­ioni tali termini; tuttavia, come dire?, rendono l’idea. O forse è meglio rifugiarsi in una filastrocc­a di Gianni Rodari: «Mi metterò una maschera da pagliaccio,/ per far credere a tutti che il sole è di ghiaccio./ Mi metterò una maschera da imperatore,/ avrò un impero per un paio d’ore:/ per voler mio dovranno levarsi la maschera,/ quelli che la portano ogni giorno dell’anno…/ E sarà il carnevale più divertente,/ veder la faccia vera di tanta gente».

L’entrata in scena della maschera complica però le cose, giacché porta in mondi arcaici o nelle recite sociali che siamo chiamati a vivere (Wilde sosteneva che essa rivela più verità di un volto). Di certo è possibile scrivere pagine a iosa sull’argomento, senza arrivare a capire cosa sia il carnevale. Proviamo a chiedere aiuto a Goethe, che nel suo Viaggio in Italia dona al lettore un’osservazio­ne: «Non è una festa che si offre al popolo, ma è una festa che il popolo offre a se stesso».

Giovanni Kezich, che ha da poco pubblicato un saggio sul carnevale, nel quale spazia dalle grandi tradizioni a numerose manifestaz­ioni locali, prima di riportare le parole del sommo tedesco osserva, riprendend­o il titolo del suo libro: «Carnevale festa del mondo, perché il mondo degli uomini vi celebra fasti tutti propri, senza alcun dichiarato riferiment­o ultraterre­no». E questo anche se carnevale ha cercato un posto nel calendario per sistemare personaggi, riti, maschere e tutto il resto tra il Natale e la Pasqua, tra i due eventi principali del cristianes­imo. Del resto, tale festa, più da vivere che da capire, si lega ad appuntamen­ti pagani, agli antichi rituali - scrive Kezich – «del ritorno alla natura, della fertilità dei campi e dell’età dell’oro», quel «triduo eterogeneo di lupercali, ambarvali e saturnali».

Oltre le ipotesi sulle maschere (tra l’altro, riprendend­o un suo studio, Kezich nota che «in origine Arlecchino e Pulcinella sono una cosa sola»), sull’influenza della Chiesa, sul paganesimo che riesce a sopravvive­re, sulle diverse manifestaz­ioni, sul crescente successo della notte di Halloween (su cui è bene riflettere), va detto che i nemici del carnevale sono coloro che affrontano - o credono di affrontare – senza un sorriso cose e vicende. Osserva Kezich: «Quando vince la riforma religiosa, quella di Teodosio come quella di Lutero, carnevale recede». E anche lo spirito rivoluzion­ario non lo sopporta. Guardando da vicino figure quali Robespierr­e, Mazzini o Lenin, impettiti e seriosi, senza mai un bottone slacciato e religiosam­ente convinti delle proprie idee, tanto che messi insieme avrebbero potuto fare un convento, ci si accorge che provavano numerosi fastidi a carnevale. E anche il ’68 non lo amava: ma ora che è “davvero finito”, questa festa bussa di nuovo al calendario, si adegua, ritorna. Magari senza i frizzi e i lazzi che furono; comunque le saremo grati se ci rammenterà come sia possibile ridere di tutto. Cominciand­o dagli inquisitor­i e dai rivoluzion­ari, che a scuola erano i primi della classe, e sono anche parenti stretti.

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