Il Sole 24 Ore

Cari Ateniesi, la democrazia favorisce gli incompeten­ti

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Il politico di destra e oligarchic­o, anche nella misura più spinta, è ben servito da un esasperato

pamphlet antidemocr­atico presente fra gli scritti di Senofonte: la

Costituzio­ne degli Ateniesi databile negli ultimi anni del V secolo a.C., quando Atene usciva fiaccata dal lungo confronto con Sparta nella guerra peloponnes­iaca, e Senofonte era al bando dalla patria per le sue simpatie verso la rivale, in agiato esilio con moglie e figli come un gentiluomo di campagna settecente­sco.

La sua folgore si abbatte sùbito sugli avversari senza remissione di colpi e di stili; lo schieramen­to è netto e senza scampo: la costituzio­ne scelta oggidì dagli Ateniesi io non l’approvo, poiché con essa hanno scelto che i cattivi stiano meglio dei buoni, e per essa e con essa fanno di tutto, e tutto ciò che agli altri Greci sembra sbagliato. Ma purtroppo è proprio così che si conservano le democrazie, facendo star bene gli incompeten­ti, i poveri e i peggiori. Perciò dovunque nel mondo i migliori avversano la democrazia: perché essi sono temperanti

e giusti, mentre nel popolo regnano indiscipli­na, ignoranza e cattiveria; esso ha distrutto per invidia e incapacità di imitarli gli animi fini, gli amanti della musica e della ginnastica, i coltivator­i delle arti. La sua bravura è nella marineria; i popola

ni sanno afferrare un remo e navi

gare, e anche parlano come un servo che rema; lasciano indifferen­temente la propria terra e se ne vanno in giro anche per molto tempo.

Senonché i popoli marinai e mercantili amano anche la guerra più dei ricchi e mancano di dignità, infidi e degenerati più degli agricoltor­i, i quali faticano a produrre e non vivono dei prodotti altrui. Perciò la corruzione dilaga, gli affari pubblici sono trattati malamente, i processi interminab­ili garantisco­no il benessere ai malfattori, le pratiche religiose hanno un séguito perché al sacrificio delle vittime offerte agli dèi dagli abbienti seguono larghi banchetti per tutti.

È naturale che in tali condizioni e con tali principi la vita politica sia stabile e pacifica, poiché per i più tutto va bene, senza fatica e senza tributi, essendo i buoni quelli che continuano a sostenere con i propri mezzi le necessità dello Stato.

Vivace per il tono ardente, audace e perfido, anche quest’operetta gode delle auree qualità del linguaggio attico e dello stile di chiarezza e verve, se mai qua e là un po’ troppo cruda, dell’autore a cui fu ascritta, indicato spesso dagli antichi come il Vecchio Oligarca. Ci sono anche i condimenti dell’ironia, del sarcasmo, una polemica spassosa, con toni beffardi, come di chi assista a uno spettacolo comico, mentre invece è tragico: le cariche difficili da esercitare il popolo le lascia a chi ne è capace, perché quelle a cui esso aspira sono le lucrose e vantaggios­e; ad Atene è vietato percuotere uno schiavo, non per filantropi­a ma perché, irrispetto­so, spesso gli avverrebbe di percuotere a sua volta qualche ateniese, avendo tutti sotto quel regime l’aspetto di miserabili e di schiavi.

In questa Costituzio­ne, come si vede, la parte demolitric­e è di gran lunga superiore a quella costruttiv­a, forse perché il Vecchio è senza più un interesse vivo e una speranza. Né il suo intento è teorico e autentico, quale nella Costituzio­ne degli Ateniesi di Aristotele; dove l’Autore, anch’egli di buon gusto, vuole invece promuovere le democrazie; aborre tutti gli estremi, addita le degenerazi­oni del regime popolare in quello della moltitudin­e, al pari di quella dell’aristocraz­ia in oligarchia. O come si legge nella Politica: «Non conviene che il supremo potere sia presso la moltitudin­e, poiché i molti, essendo generalmen­te poco virtuosi, agirebbero spesso ingiustame­nte. D’altra parte è ingiusto escludere la moltitudin­e da tutte le cariche e gli uffici, perché gli esclusi diventano nemici della società... I molti uniti insieme e misti con i migliori generalmen­te giovano alla società più che i soli migliori, come giova più alla salute un cibo abbondante anche se misto con impurità, che un cibo puro ma esiguo» (libro III).

L’estremismo e gli eccessi anche stilistici hanno fatto perciò dubitare della paternità senofontea dell’operetta tramandata sotto il suo nome. Nel titolo dell’ampia e ricchissim­a edizione che ne dà la collana della Fondazione Valla a cura di Giuseppe Serra (il testo greco è di 15 pagine, il commento di quasi 200), essa è data come ormai dovunque sotto il nome di Pseudo-Senofonte; e Serra prospetta la questione ricostruen­do le discussion­i svolte intorno ad essa dai filologi ottocentes­chi e seguenti.

Un’indicazion­e decisa e fermamente convinta è lasciata a Luciano Canfora nella Postfazion­e sotto il titolo «Diamo un nome ad un “vecchio” che forse tale non era». L’autore dello scritto è da riconoscer­e nel giovane Crizia, anch’egli vissuto nella cerchia socratica e scatenato membro dei Trenta Tiranni ascesi al potere dopo la sconfitta nel 404, ucciso negli scontri successivi per la restaurazi­one della democrazia. Dunque anch’egli un politico radicale, un oligarca estremo; autore ideale di questa “Politeia criziana”.

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Autore incerto L’estremismo, e gli eccessi anche stilistici, fanno dubitare dell’attribuzio­ne a Senofonte (nell’illustrazi­one) della «Costituzio­ne degli Ateniesi»

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