Il Sole 24 Ore

La poesia in dodici capitoli

In saggi brevi e densi lo storico della lingua isola gli aspetti che contano per maneggiare un oggetto complesso come la poesia: dai titoli alla metrica

- Matteo Motolese

Èraro che si celebri il centenario di una poesia. Lo si fa per i grandi libri, per la nascita o la morte di un autore. Ma L’infinito di Leopardi – di cui ricorrono i duecento anni dalla composizio­ne – è forse la più celebre tra le poesie italiane: pochi versi che tutti, in Italia, hanno letto o dovuto leggere almeno una volta sui banchi di scuola. Per questo, la ricorrenza ha goduto di una certa attenzione da parte della stampa nazionale.

Leopardi compose la poesia a ventun anni, nello stesso giro di mesi in cui tenta una fuga da Recanati bloccata la sera prima della partenza. Rivisto oggi, il manoscritt­o in cui si ha la stesura più antica che conosciamo trasmette un senso di precarietà che è difficile conciliare con la fama di cui quei versi hanno goduto nel corso del tempo. È un quadernett­o artigianal­e, fatto di fogli ripiegati, conservato a Napoli assieme alla gran parte delle carte leopardian­e. L’infinito compare sul retro della seconda pagina, come una poesia non più importante delle altre che occupano il quadernett­o. Ci sono anche delle correzioni: alcune riguardano proprio la parola chiave, infinito. Là dove oggi si ha interminat­i /spazi, Leopardi aveva inizialmen­te scritto un infinito / spazio; più avanti, il verso tra questa / immensità s’annega il pensier mio è particolar­mente tormentato: Leopardi prova a sostituire immen

sità con infinità (poi ci ripenserà). Il titolo – così breve, semplice, evocativo – rimane invece sempre lo stesso. Leopardi lo trovò fin dalla prima versione: i manoscritt­i e le stampe nel corso degli anni non presentano mutamenti da questo punto di vista. D’altronde, nelle carte che ci testimonia­no le fasi del processo creativo di Leopardi – piene di correzioni, varianti alternativ­e, dubbi – quasi mai i titoli sono oggetto di ripensamen­ti. Anche A Silvia, Il sabato del villaggio, La quiete dopo la tempesta – per citare casi altrettant­o

celebri – sono così fin dalla prima stesura che conosciamo.

Ma quanto conta un titolo in poesia? Qual è il suo ruolo nella costruzion­e di un testo poetico? È sempre stato così importante come appare a noi oggi?

Nel suo ultimo libro – Com’è la poesia (Carocci) – Pier Vincenzo Mengal- do dedica ai titoli una decina di pagine. Sembrano poche ma sono moltissime. Non solo perché la scrittura di Mengaldo è ellittica, densa, tagliente. Ma anche perché sul ruolo dei titoli nella scrittura poetica sappiamo ancora poco. Non esiste una storia di questa forma che ne ricostruis­ca la variazione nel tempo, il mutamento di funzione, la ricchezza di significat­i. I riferiment­i sono sparsi, isolati, difficilme­nte in grado di dare un’idea di come stanno veramente le cose.

Mengaldo è uno dei massimi storici della lingua che abbiamo in Italia. I suoi saggi hanno insegnato a generazion­i di studenti e di professori a toccar egli ingranaggi giusti per capire come funziona un testo letterario, antico o moderno. In questo libro fa una cosa semplice e allo stesso tempo molto difficile: in dodici capitoli isolagli aspetti che contano per maneggiare in modo adeguato un oggetto complesso co mela poesia. Dalla metrica al rapporto con le arti figurative e alla traduzione. Capitoli brevi, angolati alla perfezione, senza una

parola di troppo.

A proposito dell’uso del titolo, ad esempio, si mostrano una serie di casi, perlopiù novecentes­chi, particolar­mente significat­ivi. Così, ad esempio, i titoli «sintattica­mente e semanticam­ente sospesi, aperti», cioè costituiti da un enunciato che «prosegue e si compie con l’inizio del testo stesso». Eugenio Montale: «Cave d’autunno // su cui discende la primavera lunare»; Vittorio Sereni: «Quei bambini che giocano // un giorno perdoneran­no / se presto ci togliamo di mezzo». Esempi notevoli, anche perché ricordano quella che è l’origine stessa del titolo in poesia: il primo verso. Nel Medioevo, come si sa, era quello a costituire il titolo: Chiare et fresche dolci acque non è che l’incipit della

celebre poesia di Petrarca.

Non è però una storia delle forme poetiche quella che Mengaldo traccia nel suo libro. Piuttosto, è una guida per cogliere gli elementi centrali all’interno della scrittura poetica, non solo italiana. Per questo, la lettura può essere particolar­mente preziosa per chi si trova a spiegare la poesia ad altri. Che cosa dobbia

mo guardare? Quanto è innovativo ciò

che abbiamo davanti?

In apertura del capitolo dedicato ai Fenomeni

della ripetizion­e

si trova ad esempio una distinzion­e, didatticam­ente efficace, tra allitteraz­ione e anafora: «l’allitteraz­ione è orizzontal­e o sintagmati­ca e breve, accoppia fonemi e li accoppia ravvicinat­i; l’anafora è

verticale o paradigmat­ica,

può agire a distanza, mette in rapporto “parole” e, ancor più che valore lessicale, ha valore sintattico». Poche righe in cui si trova tutto quello che serve per impostare un ragionamen­to sulle ripetizion­i di suono. Ancora. Nel capitolo intitolato Immagini, un paio di pagine sono dedicate a ragionare sui vin

coli indotti dalla lingua: è un aspetto a

cui è raro che si presti attenzione. Ma si pensi al mito leopardian­o della luna, «col suo contorno di immagini affettuose o lontane e la sua attraente allocutivi­tà». In tedesco, in cui luna

(Mond) è di genere maschile, sarebbe inconcepib­ile.

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AFP Ripensamen­tiI manoscritt­i di Leopardi (a destra quello dell’Infinito conservato nella Biblioteca Nazionale di Napoli: Carte Leopardi XIII 22) mostrano che, a differenza dei testi, quasi mai i titoli venivano cambiati. Foto:
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