La poesia in dodici capitoli
In saggi brevi e densi lo storico della lingua isola gli aspetti che contano per maneggiare un oggetto complesso come la poesia: dai titoli alla metrica
Èraro che si celebri il centenario di una poesia. Lo si fa per i grandi libri, per la nascita o la morte di un autore. Ma L’infinito di Leopardi – di cui ricorrono i duecento anni dalla composizione – è forse la più celebre tra le poesie italiane: pochi versi che tutti, in Italia, hanno letto o dovuto leggere almeno una volta sui banchi di scuola. Per questo, la ricorrenza ha goduto di una certa attenzione da parte della stampa nazionale.
Leopardi compose la poesia a ventun anni, nello stesso giro di mesi in cui tenta una fuga da Recanati bloccata la sera prima della partenza. Rivisto oggi, il manoscritto in cui si ha la stesura più antica che conosciamo trasmette un senso di precarietà che è difficile conciliare con la fama di cui quei versi hanno goduto nel corso del tempo. È un quadernetto artigianale, fatto di fogli ripiegati, conservato a Napoli assieme alla gran parte delle carte leopardiane. L’infinito compare sul retro della seconda pagina, come una poesia non più importante delle altre che occupano il quadernetto. Ci sono anche delle correzioni: alcune riguardano proprio la parola chiave, infinito. Là dove oggi si ha interminati /spazi, Leopardi aveva inizialmente scritto un infinito / spazio; più avanti, il verso tra questa / immensità s’annega il pensier mio è particolarmente tormentato: Leopardi prova a sostituire immen
sità con infinità (poi ci ripenserà). Il titolo – così breve, semplice, evocativo – rimane invece sempre lo stesso. Leopardi lo trovò fin dalla prima versione: i manoscritti e le stampe nel corso degli anni non presentano mutamenti da questo punto di vista. D’altronde, nelle carte che ci testimoniano le fasi del processo creativo di Leopardi – piene di correzioni, varianti alternative, dubbi – quasi mai i titoli sono oggetto di ripensamenti. Anche A Silvia, Il sabato del villaggio, La quiete dopo la tempesta – per citare casi altrettanto
celebri – sono così fin dalla prima stesura che conosciamo.
Ma quanto conta un titolo in poesia? Qual è il suo ruolo nella costruzione di un testo poetico? È sempre stato così importante come appare a noi oggi?
Nel suo ultimo libro – Com’è la poesia (Carocci) – Pier Vincenzo Mengal- do dedica ai titoli una decina di pagine. Sembrano poche ma sono moltissime. Non solo perché la scrittura di Mengaldo è ellittica, densa, tagliente. Ma anche perché sul ruolo dei titoli nella scrittura poetica sappiamo ancora poco. Non esiste una storia di questa forma che ne ricostruisca la variazione nel tempo, il mutamento di funzione, la ricchezza di significati. I riferimenti sono sparsi, isolati, difficilmente in grado di dare un’idea di come stanno veramente le cose.
Mengaldo è uno dei massimi storici della lingua che abbiamo in Italia. I suoi saggi hanno insegnato a generazioni di studenti e di professori a toccar egli ingranaggi giusti per capire come funziona un testo letterario, antico o moderno. In questo libro fa una cosa semplice e allo stesso tempo molto difficile: in dodici capitoli isolagli aspetti che contano per maneggiare in modo adeguato un oggetto complesso co mela poesia. Dalla metrica al rapporto con le arti figurative e alla traduzione. Capitoli brevi, angolati alla perfezione, senza una
parola di troppo.
A proposito dell’uso del titolo, ad esempio, si mostrano una serie di casi, perlopiù novecenteschi, particolarmente significativi. Così, ad esempio, i titoli «sintatticamente e semanticamente sospesi, aperti», cioè costituiti da un enunciato che «prosegue e si compie con l’inizio del testo stesso». Eugenio Montale: «Cave d’autunno // su cui discende la primavera lunare»; Vittorio Sereni: «Quei bambini che giocano // un giorno perdoneranno / se presto ci togliamo di mezzo». Esempi notevoli, anche perché ricordano quella che è l’origine stessa del titolo in poesia: il primo verso. Nel Medioevo, come si sa, era quello a costituire il titolo: Chiare et fresche dolci acque non è che l’incipit della
celebre poesia di Petrarca.
Non è però una storia delle forme poetiche quella che Mengaldo traccia nel suo libro. Piuttosto, è una guida per cogliere gli elementi centrali all’interno della scrittura poetica, non solo italiana. Per questo, la lettura può essere particolarmente preziosa per chi si trova a spiegare la poesia ad altri. Che cosa dobbia
mo guardare? Quanto è innovativo ciò
che abbiamo davanti?
In apertura del capitolo dedicato ai Fenomeni
della ripetizione
si trova ad esempio una distinzione, didatticamente efficace, tra allitterazione e anafora: «l’allitterazione è orizzontale o sintagmatica e breve, accoppia fonemi e li accoppia ravvicinati; l’anafora è
verticale o paradigmatica,
può agire a distanza, mette in rapporto “parole” e, ancor più che valore lessicale, ha valore sintattico». Poche righe in cui si trova tutto quello che serve per impostare un ragionamento sulle ripetizioni di suono. Ancora. Nel capitolo intitolato Immagini, un paio di pagine sono dedicate a ragionare sui vin
coli indotti dalla lingua: è un aspetto a
cui è raro che si presti attenzione. Ma si pensi al mito leopardiano della luna, «col suo contorno di immagini affettuose o lontane e la sua attraente allocutività». In tedesco, in cui luna
(Mond) è di genere maschile, sarebbe inconcepibile.