Ethan Frome, una freddissima storia d’amore
Ovunque la neve copre i campi, le colline, le case rade del villaggio di Starkfield, nel Massachussetts: essa si deposita sugli alberi, incrina i tetti delle stalle, si insinua negli anfratti dei ruscelli, satura le mulattiere. In quella terra dell’est americano l’inverno detta legge, e la sua è una sentenza di povertà, di duro lavoro, di lotta contro una natura ostile.
Ecco lo scenario, certo inquietante, di Ethan Frome: una delle storie d’amore più disperate che siano mai state scritte, in cui la dura lotta quotidiana contro il destino non ha neppure la cittadinanza del dolore. Scritto da Edith Wharton, nata a New York nel 1862 in una famiglia dell’alta borghesia, Ethan Frome appare come un racconto lungo, la cui lunghezza possiede la complicità delle giornate innevate (siamo nel 1911) di un villaggio assediato dal gelo. I luoghi descritti dall’autrice sono quelli, impietosi, di una regione sottoposta all’inclemenza degli elementi (grandi nevicate che isolano villaggi e «cottage»), in cui solitudine e follia la fanno da padroni, condannando una popolazione all’inedia e a una vita di stenti. È lo stesso Massachussetts di cui parla un altro grande della letteratura americana, il poeta Robert Frost, che ritrae impietosamente in
A nord di Boston (1914) la tragedia dei «cottage neri» in cui languono i sopravvissuti di grandi gelate, ridotti a essere emarginati (si pensi solo a “Luoghi deserti”, in A Further Range, in cui si accenna a una «neve ottenebrata,/ senza espressione, senza poter esprimere nulla»).
Wharton è un’autrice fortemente legata al proprio borghese urbanizzato (fu anche in Europa sulla scia dell’innocenza, di Henry James). milieu Lo vediamo bene nel suo romanzo più famoso, L’età
vincitore di un Pulitzer nel 1921, che coniuga assai bene il disincanto anti-romantico dell’aristocrazia capitalistica americana con i nuovi grandi mutamenti sociali del XX secolo (e in ciò si discosta certamente dall’autore di Ritratto di signora). Ma, al di fuori di quest’ambiente dorato, è un’esperienza diretta a metterla in contatto con i paesaggi desolati del Massachussetts, quando, nel 1901, si trasferisce momentaneamente a Lenox in una sontuosa mansion immersa in una natura ancora abbastanza selvaggia. Proprio lì, in quella parte del New England, comincia a percorrere vie deserte e territori abbandonati («due strade ad un bivio nel bosco…peccato non percorrerle entrambe» cantava Frost in
Mountain Interval, nel 1916), entrando in contatto con classi sociali certo meno privilegiate della sua, con uomini sottoposti a una quotidianità ostile e ancora pionieristica.
Ne nasce Ethan Frome, un romanzo per così dire “anomalo”, che però contiene uno dei motivi-chiave della narrativa whartoniana: l’impossibilità di realizzare un amore schiacciati dalle contingenze, perduti nella sconcertante ineludibilità della scelta-non scelta dell’esistenza (una “passività” imbelle che evoca i personaggi perdenti di Gente di Dublino di James Joyce, uscito nel 1914). Ethan, che ha da poco passato la cinquantina, ci viene presentato con un artifizio molto accattivante, attraverso la testimonianza “esterna” di un tecnico chiamato ad una consulenza alla centrale elettrica di Corbury Junction e inchiodato a Starkfield da uno sciopero dei carpentieri. È il nostro interlocutore, infatti, a conoscere quest’uomo taciturno e sciancato che lo accompagna ogni giorno in slitta fino alla stazione più vicina onde raggiungere il luogo di lavoro. E questa conoscenza sarà sin dall’inizio ammantata da un alone di mistero, da una serie di allusioni, da parte degli altri abitanti del villaggio, a un incidente capitato al povero Ethan molti anni prima, qualcosa che lo avrebbe annientato nella carne e nello spirito.
Da qui si dipana la narrazione di un’incredibile quando tragica storia d’amore, incentrata su un morboso triangolo famigliare. Ethan vive in un «cottage» accanto alla moglie Zeena, un’ipocondriaca maniaco-depressiva legata a cure fantasiose quanto inutili di medici millantatori. A loro si unisce la giovane Mattie, cugina di Zeena, orfana e dedita alle cure della “malaticcia”, di cui l’ancora giovane Ethan s’innamora perdutamente. Mattie, con la sua spensieratezza, con la sua levità quasi infantile, con la sua forza seduttiva di cui è forse ignara, attrae Ethan a tal punto da fargli progettare una fuga d’amore. Che non potrà mai avvenire, complice il sordo senso di colpa di un ambiente protestante oppressivo. Le cose si complicheranno quando Zeena, che ha subodorato l’intesa ancorché innocente fra i due, sostituirà la ragazza con una vera a propria badante, abbandonandola a un destino di solitudine, senza mezzi di sostentamento.
Tutto precipiterà nella tragedia e nel fatidico incidente, di cui non darò conto perché la storia va “respirata” a poco a poco, nella sua inesorabile lentezza. Vi invito solo a soffermarvi sulla simbologia universale di quella neve, che copre tutto, che avvolge e soffoca tutto, che tiene in ostaggio con crudeltà un delicatissimo sogno di riscatto.