Il risveglio del gigante d’Oriente
L’attuale forza economica del continente è frutto di un processo di riscatto iniziato nel Novecento
Che l’Asia possieda le carte per esercitare un ruolo sempre più rilevante nel ventunesimo secolo è un dato di fatto. Tanto evidente risulta il peso che Cina, India e Giappone hanno sul piano economico; e così pure il dinamismo con cui vari Paesi del Sud-est asiatico si sono affermati sulla via dello sviluppo e della modernizzazione. Inoltre va tenuto in debito conto il fatto che dei sette miliardi della popolazione globale oltre quattro sono asiatici.
C’è peraltro da chiedersi, per comprendere meglio lo scenario e le prospettive del mondo attuale, se quello a cui stiamo assistendo sia un fenomeno che ha portato solo adesso l’Asia ad emergere nello scacchiere internazionale; oppure se si tratti di un processo le cui radici affondano nel Novecento.
Lo storico francese Pierre Grosser ha voluto perciò verificare come stiano effettivamente le cose ricomponendo la trama e l’ordito delle vicende susseguitesi nel continente asiatico nel secolo scorso tracciandone un quadro d’insieme fondato su una vasta documentazione. A conclusione del quale ha tratto la convinzione che si debba parlare in proposito di una sua “riemergenza” rispetto a una visione tradizionale contrassegnata da un eccessivo occidentalcentrismo.
A suo giudizio, dopo oltre due secoli durante i quali l’Asia era stata soggetta a un’egemonia o al dominio coloniale dell’Occidente, sono riscontrabili, dagli inizi del Novecento, i prodromi di una rinascita dell’Asia, quale comprimaria delle relazioni internazionali. Al riguardo due sono gli eventi a cui Grosser fa soprattutto riferimento: da un lato, il clamoroso successo militare riportato dal Giappone sull’impero russo nella guerra del 1904-05; dall’altro, la rivoluzione nazionalista in
Cina nel 1911 ad opera del leader repubblicano Sun Yat-sen con la sua vocazione democratica e occidentale (perciò assecondata dagli Stati Uniti, interessati d’altronde ad ampliare la loro presenza in Asia dopo aver cacciato nel 1898 gli spagnoli dalle Filippine e da Guam), che segnò l’epilogo dell’ex Impero Celeste, scivo
lato in un mortificante immobili
smo ed esposto perciò alle brame di un po’ tutte le potenze europee.
Dopo di allora, in capo ad alterne e controverse vicende, la Cina fornì dall’agosto 1917 un contributo bellico, seppur modesto, ai governi dell’Intesa durante la Grande Guerra; ciò il Giappone aveva già fatto, da tre anni, occupando una dopo l’altra le colonie tedesche in Estremo Oriente e assistendo la marina britannica in varie operazioni. Inoltre, dopo la Conferenza di pace di Versailles e sulla scia del principio wilsoniano dell’autodeterminazione dei popoli, ebbe inizio il vasto moto di protesta non violento promosso da Gandhi, per l’emancipazione dell’India dal dominio britannico.
Si delineò così il preludio di un mutamento del vecchio ordine mondiale, tendente ad accentuarsi, dai primi anni Trenta, in seguito alla questione mancese, che Grosser definisce una sorta di “polveriera” per i suoi risvolti esplosivi.
Parallelamente al fallimento della stabilizzazione politica in Europa (in seguito al prorompente revanscismo della Germania nazista), in Asia il possesso della Manciuria, ricca di foreste e di risorse minerarie, appartenente in gran parte alla Cina, entrò nelle mire del Sol Levante, che aveva acquisito tutti i privilegi e diritti relativi alla linea ferroviaria transmancese costruita dai suoi tecnici. All’invasione giapponese della Manciuria nel 1931, aveva fatto seguito, l’anno dopo, la creazione di uno Stato formalmente indipendente, il Manchukuo, ma in realtà controllato da Tokyo; quale primo tassello di un sistema imperiale nipponico in Asia; e nel 1937 una brutale guerra d’aggressione alla Cina, destinata ad avere ripercussioni globali sugli equilibri geo-politici internazionali anche per il concomitante avvicinamento di Tokyo all’Asse Roma-Berlino: finché l’attacco giapponese nel dicembre 1941 agli Usa trasformò il conflitto in corso in Europa in una nuova conflagrazione su scala mondiale.
Dal secondo dopoguerra è stata l’Asia, rispetto all’Europa spaccata in due sulla linea dell’Elba, non solo l’epicentro della Guerra fredda per via del conflitto fra le due Coree e poi di quello vietnamita. Una volta decolonizzatasi pressoché interamente e divenuta l’asse portante del nucleo dei Paesi “non allineati” del Terzo Mondo, essa è stata anche la sede in cui, dapprima, la Cina maoista si è svincolata dalla preminenza sovietica con la sua apertura diplomatica agli Stati Uniti di Nixon, e poi quella di Deng Xiao Ping ha sperimentato dal 1978 la graduale conversione del Dragone rosso al “socialismo di mercato” finendo così per influire alla lunga, grazie ai suoi progressi economici, anche sulla transizione politica dei paesi satelliti dell’Urss sempre più insofferenti ai dettami di Mosca, costretta nel contempo a retrocedere dal suo avamposto militare in Afghanistan. Nemmeno la violenta repressione del moto studentesco di piazza Tienanmen nel giugno 1989 valse infatti a dissolvere la fascinazione di Pechino.
Oggi che la Cina è divenuta la principale “fabbrica del mondo” e l’India è in grado di competere con l’Europa nel campo dell’hitech, mentre il Giappone è rimasto una grande potenza economica, gli scambi intra-asiatici stanno crescendo più in fretta del commercio mondiale. Inoltre l’importanza dell’Asia nell’agone internazionale risulta talmente marcata da preoccupare seriamente gli Stati Uniti. Al punto che l’area del Pacifico è assurta a nuova frontiera strategica dell’America di Donald Trump, che frattanto ha allentato i suoi rapporti con l’Unione europea, ma che rimane peraltro incerta se flirtare o ingaggiare un braccio di ferro con la Cina in una guerra commerciale che, per le sue implicazioni politiche, diverrebbe una grave minaccia per la stabilità e la pace del mondo intero.