Le vivaci nature morte di Geo Poletti
Nell’ambito di Museo City 2019 - che quest’anno approfondisce il rapporto natura e arte - le sale di Palazzo Reale di Milano si aprono fino al 24 marzo per ospitare una mostra mai vista prima: Le nature morte di Geo Poletti. Una collezione milanese.
Si tratta di una straordinaria raccolta di 25 dipinti del Seicento e Settecento acquistati negli anni da Geo Poletti (1926 - 2012), studioso intelligente, pittore per passione, collezionista, mercante d’arte e conoisseur dal gusto infallibile, noto a tutti i musei del mondo. Poletti non comprava i quadri con le orecchie (come fanno oggi molti businessman), ma con gli occhi. Al suo sguardo veloce, profondo e sornione sfuggivano poche cose e anche di quelle se ne rendeva subito conto. Lo racconta molto bene Alessandro Morandotti nel saggio in catalogo, descrivendo l’ambiente collezionistico milanese degli anni Ottanta. A quel tempo - per noi neolaureati in storia dell’arte - una visita alla collezione del Poletti valeva più di un master. Amico di Giovanni Testori, nella comune frequentazione di Roberto Longhi e dei suoi studi sul Caravaggio e sui pittori lombardi della realtà (dal Ceruti a Frà Galgario), Geo Poletti condivideva con generosità le sue intuizioni e, come una carta assorbente, faceva subito sue quelle altrui.
La mostra, curata da Paolo Biscottini e da Annalisa Zanni e realizzata con Uberto, Giovanna, Alessandra e Francesca Poletti (figli di Geo e Giulia) ha un doppio merito. Anzitutto quello di ricordare il grande conoscitore che per circa cinquant’anni, tra il 1960 e la morte, si mosse sulla scena culturale italiana fra gli storici dell’arte più illustri. In secondo luogo accende i riflettori sul genere della natura morta barocca, tornata protagonista nei recenti record delle aste newyorkesi. Poletti era più un artista che un intellettuale; la sua vera biblioteca era appesa ai muri di casa e - come scrivono nell’introduzione Biscottini e Zanni - come pittore del Novecento si innamorò della possibilità che il genere della natura morta gli offriva. Davanti alle tele di Baschenis, Strozzi, Porpora o Ter Brugghen, Geo Poletti ragionava di pieni e di vuoti, di chiari e di scuri, di valori simbolici e soprattutto di una rappresentazione non narrativa della natura. Dipingere fiori, frutta e cacciagione diventava un esercizio metafisico, come trovare le ragioni della pittura oltre sé stessa, in una dimensione sicuramente più filosofica che strettamente figurativa.