Sulle astronavi dell’ascolto
Alla Concert Hall si trasferirà la London Symphony Orchestra. The Shed nella Grande Mela sarà un centro di produzione di musica, performing e visual arts
Inuovi templi della musica e della cultura assomigliano sempre meno a sale da concerto, musei o luoghi in cui fruire frontalmente del genio altrui e, sempre più, sono al centro di una mutazione copernicana: cambiando il punto di vista, cambia l’oggetto stesso. Dopo l’inaugurazione, due anni fa, dell’Elbphilharmonie di Amburgo, colossale astronave di vetro costata quasi un miliardo di euro e della Seine Musicale di Parigi (“una festa musicale permanente”), praticamente un’isola post-industriale trasformata in spazio musicale e performativo diffuso che si aggiunge alla recente Philarmonie progettata da Jean Nouvel alla Cité de la Musique, due nuove astronavi stanno per poggiare su due delle Capitali culturali del mondo: Londra e New York. A Londra, verrà inaugurata a breve la faraonica Concert Hall, che cambierà il volto del celebre e centralissimo Square Mile, un Center for Music integrato nell’ecosistema del recente polo culturale Smithfield General Market, dello storico Barbican Center; sarà tra un paio d’anni la nuova casa della London Symphony Orchestra e della Guildhall School of Music. Oltre l’Atlantico, invece aprirà in primavera i battenti The Shed, un centro di commissione, produzione e presentazione di musica, performing arts, visual arts, and popular culture. Praticamente, tutta la filiera dell’industria culturale e dello spettacolo in un fortino dell’arte modulare che cambierà pelle a seconda delle necessità. Ma cosa ren
de, al netto dell’ego faraonico dei
progettisti (mecenati, amministratori, architetti e consulenti a vario ed eventuale titolo) tutti questi nuovi spazi principalmente degli esperimenti sociali, urbanistici e addirittura cognitivi, prima ancora che contenitori di cultura e arte? Il cambio di prospettiva, esercizio utile a
chi ha la giusta ambizione a far en
trare l’arte (la musica, in questo caso) nella vita, qui e ora. Questi centri sono e saranno polmoni flessibili, integrati, in connessione e in relazione. Cioè luoghi in cui coltivare nuove possibilità, attraverso bellezza, skills di ogni genere, attraendo come calamite eccellenze globali (non poche arriveranno dall’Italia).
In sostanza, la sfida è ovunque quella di trasformare musei, sale da concerto e spazi espositivi in centri di produzione di cultura, polis divergenti ed eccellenti nel cuore delle metropoli (ma anche nei paesi, come nel caso della piattaforma di innovazione H-Farm, sita nel borgo veneto di Ca’Tron), in cui non si fruisca passivamente dell’arte, ma convergano creatività, economia di filiera, industria culturale. Se ne parla (e se ne parlerà) anche da noi, in spazi che potenzialmente guardano al futuro (come le nuove OGR torinesi), ancora in cerca di connessioni e identità condivise. Sfida non sempre raccolta, come hanno mostrato le crisi strutturali di grandi spazi culturali pubblici come Le 104 a Parigi, che doveva rianimare il più difficile quartiere parigino e restò, per alcuni anni, una straniante cattedrale nel deserto. Ma è una sfida su cui vale la pena rischiare tutto. Ecco perché ad Amburgo, Parigi, Londra e New York, tra una o due generazioni, i nostri figli e nipoti troveranno ancora aria fresca in questi templi della cultura e della musica, qualunque sarà la musica che si suonerà ed ascolterà tra venti o trent’anni. Se anche noi vogliamo restare connessi e fare dei nostri modelli culturali un prototipo per il nostro sviluppo (e per il nostro futuro), sarebbe bene interrogarsi, semplicemente, su cosa rende il nostro Paese unico e speciale; resilienza e creatività, una grande Storia e grandi storie, condite entrate del letame che genera forza e bellezza. In ultimo, ci rende ciò che siamo, o eravamo, la tradizione che poggia, da secoli, sull’innovazione. Ma quando la tradizione comincia a poggiare su altra tradizione, assume un altro, meno allettante, nome: il folklore. Che, anno dopo anno, rischia di trasformare il nostro patrimonio (anche quello vivente) e i nostri savoir faire in qualcosa di simile alle rampe di lancio sovietiche della Guerra fredda, giungle di cemento abbandonate all’oblio, fuori tempo ora (troppo vecchie) e allora (troppo avveniristiche), fotografie di sogni di esplorazione e scoperta che non arriveranno più.