Ricordi d’Africa chiusi in un sacchetto di terra
Un continente disperato e ramingo dal quale i popoli fuggono
Il mare che bagna Mogadiscio ha i colori della nostagia e si confonde con l’incertezza di uno sguardo troppo dilatato per essere semplicemente quello di un turista o dei marinai a bordo delle navi cargo. Anche la città vive nella condizione di un’eterna fuga che dà al paesaggio un’aria da smobilitazione e non ha più nulla della retorica con cui a noi italiani, ottant’anni fa, era stata raccontata come conquista coloniale: un luogo dove ricordare la patria coltivando speranze di ricchezze e cantare alle belle abissine l’arrivo di una Roma vittoriosa.
Poi è venuto Ennio Flaiano, con Tempo di uccidere (1947), a ricordarci che quei territori erano nient’affatto rosei. Di quel mare, se oggi ce ne ricordiamo, è perché da lì partono i fili invisibili di chi emigra da sud a nord, non più una navigazione nell’azzurro, ma una traversata carovaniera nei colori aridi del deserto, attraverso la Somalia, l’Etiopia, il Sudan, la Libia, nascosti nella pancia dei camion o dei container, fino ad affacciarsi sull’altro mare, il nostro.
Rispetto alle rotte dei colonizzatori, i percorsi dei migranti sono ugualmente ricchi di memoria, ma sono storie di esportazione che attendono ancora di trovare un loro valore utopico, di diventare mito e disegnare in questo modo un nuovo orizzonte geografico. Predrag Matvejevic, in Breviario mediterraneo (1994), formulava un’ipotesi altamente suggestiva: che a raccontare le terre al di là del mare siano stati per primi i sognatori e solo dopo i cartografi siano stati costretti a disegnare le mappe per provare la veridicità di queste visioni.
Ma se davvero così fosse, prima ancora di esistere nella realtà, il Mediterraneo è stato un esercizio dell’immaginazione, addirittura un’invenzione degli scrittori, per cui basterebbe leggere i poemi dei grandi viaggi - l’Odissea, le Argonautiche, l’Eneide - e ritenerli il canovaccio degli atlanti. Questo aspetto conferma uno dei caratteri fondativi della dimensione occidentale, che non è il restare fermi dentro una geografia, per quanto essa possa trasfigurarsi in un «giardino di eden», ma viaggiare, contaminare, incontrare, nella direzione di un’epica che Walter Benjamin prefigurava all’origine del narrare, opponendo il romanzo del mercante al romanzo dell’agricoltore.
I popoli raramente si sono accontentati di coltivare la terra, piuttosto hanno trasmigrato da un capo all’altro del pianeta, con l’obiettivo non così effimero di stare meglio, di ottenere garanzie dal luogo di approdo, di realizzare quella casa comune che non dovremmo avere timore di chiamare utopia. Certo, una differenza esiste quando pensiamo alla partenza di Abramo da Ur, la capitale dei Caldei, o al distratto navigare di Ulisse da Troia a Itaca rispetto alla disperata fuga di un Enea che abbandona alle spalle l’apocalisse di una civiltà e si muove, in un andare senza ritorno, verso la polis che gli dei hanno promesso. Enea, come Abramo, intraprende il cammino per fede, Ulisse per svago. Ulisse naviga in senso circolare: da Itaca a Itaca, trascorrendo una ventina d’anni a zonzo nel Mediterraneo e nel frattempo riesce perfino a vincere una guerra. Per Enea invece si prospetta una migrazione irreversibile, non un vagabondare nell’infinito della conoscenza ma un progetto di vita che diventa progetto di civiltà. Abramo, Ulisse, Enea sono uomini che generano un’esperienza collettiva, rappresentano destini a cui soggiace una simbologia universale.
Il vero punto di rottura con questa tradizione avviene quando, oltrepassata la soglia del moderno, ci troviamo di fronte a storie in cui è difficile distinguere caratteri individuali e ogni singolo volto, ogni nome sono elementi da affidare ai calcoli statistici. Il dramma sta qui: restiamo dentro l’epico ma si tratta di un’epica minore, conserviamo il senso di qualcosa apparentato ai fatti memorabili però abbiamo smarrito la dimensione eroica, sicché ogni migrazione - da quelle oltreoceano alla fine dell’Ottocento ai flussi odierni lungo le rotte del Mediterraneo, passando attraverso gli spostamenti verso il Sud America o il Nord Europa alla fine della seconda guerra mondiale - contiene i temi di una vicenda anonima pur nella sua imponenza di numeri, destinata a farsi trasparente perché priva di forza fondativa.
Per fortuna esistono le storie della letteratura che rendono sacre le vite umane e le avviano sulle strade di una laica immortalità, a patto però che siano necessarie, così come suggerisce Carmine Abate a conclusione del suo Le rughe del sorriso (Mondadori, pagg. 258, € 19): necessarie perché «ti vengono a trovare quando sono mature come un frutto, reclamano che tu le assapori, anche se sono amare, s’intrufolano dentro di te per coinvolgerti e aspettano la tua versione dei fatti, sapendo che ogni storia cambia a seconda di chi la racconta e di chi l’ascolta». Bisogna raccontare solo quando è necessario. Da sempre Abate scommette il suo valore di scrittore sugli argomenti del partire e del tornare e anche questo libro (che è il poema di un’Africa disperata e raminga, tenera sotto la scorza di infinite crudeltà) non sarebbe dispiaciuto a un Benjamin a patto che si convertisse alla religione della necessità economica, trapiantando il mercante navigatore nell’urgenza di un esodo che appaga il bisogno di vita e lavoro, esigenza di civiltà.
Più che semplici lettori, con Le rughe del sorriso siamo spettatori di un miracolo che, ad avere un po’ più di coraggio, osserveremmo con maggiore entusiasmo: il miracolo dei popoli che nell’attraversare mari e deserti, nell’affrontare la lotta darwiniana per la sopravvivenza arrivano alle nostre spiagge con il loro sconfinato magazzino di storie. Ognuno dei personaggi di questo libro non è un relitto di continenti in stato di disfacimento, piuttosto la vera risorsa che a noi europei manca, a noi che viviamo in una civiltà perennemente corrosa dalla frenesia professionale, dall’agonismo carrieristico, dalla vita comoda e ci limitiamo ad aspettare che i giorni passino nell’ottusa convinzione di una cronaca che fa il verso a se stessa.
In questo continente grigio nel quale ci troviamo tutti i giorni a pronunciare il nostro recitativo senza più essere mercanti e navigatori, in questo Occidente senza utopie, così come lo hanno definito Massimo Cacciari e Paolo Prodi nel titolo di un libro (Il Mulino, pagg. 141, € 14), le storie che ci arrivano dall’Africa, dal Medio Oriente, dai Balcani o da un qualsiasi altrove, potrebbero costituire la miscela in grado di regalarci un po’ della voglia di futuro che in noi è diventato raro scovare e che invece non manca in quel campione di umanità sopra i gommoni, al largo di Lampedusa. Progettare e costruire presuppongono uno scatto in avanti, un recupero allo smarrimento che ci assedia. Dovremmo tutti imparare dai migranti, che si portano dietro i sacchetti di sabbia a ricordo della loro terra come Enea si portò i penati, o dal bimbo naufrago, qualche tempo fa, che voleva presentarsi al cospetto di noi increduli con la pagella di voti eccellenti.