Il fascino di una fiaba avvolta nel ghiaccio
La nebbia si congela e ogni oggetto assume lo spessore precario del cristallo e, allora, anche i paesaggi più scuri si distendono in una costellazione esitante di figure scolpite, ombre grumose e sbiancate, mosse in arresto. È quella che chiamano la «galaverna», uno strato di brina che ricopre il reale, e lo raddoppia, condensando ogni cosa e ogni azione in pose morte. Già con la scelta del titolo e del tema di questo suo affascinante «cunto delli cunti» ambientato tra montagne e foreste, remoti borghi alpini, lande segrete, Marco Corona si dà un compito impossibile (e riesce alla grande). Disegnare storie e fiabe e incubi e sogni passando attraverso questo strato di ghiaccio, impenetrabile; raccontare le specialissime, circolari, perturbanti vicende di una saga di iniziazione pagana, o troppo cristiana, lasciando sempre l’ultima parola al paesaggio, al mondo attorno. Come la nebbia che non è nebbia che fa da sfondo all’Esame, il romanzo giovanile di Cortazar, come la neve che non è neve che ricopre la Buenos Aires de L’eternauta, la galaverna di Corona diventa l’autentica, muta, allarmante protagonista del racconto (e Corona la disegna benissimo: in Italia nessuno sa lavorare sul bianco e sul nero meglio di lui).
Siamo in un villaggio da qualche parte sulle Alpi, e in pieno inverno, dentro un paesaggio delimitato, un microcosmo che suo malgrado non ignora la Storia ufficiale e spietata, lo
Zeitgeist. Da qualche parte c’è stata una guerra crudele, e ci sono state stragi, bombardamenti e profughi allo sbando, persone in fuga. La comunità dei montanari questa gente che scappa li accoglie e non li accoglie; e' chiusa, diffidente, cattiva, superstiziosa. O forse ha soltanto i suoi tempi e i suoi riti, le sue stagioni.
Nel romanzo a fumetti di Corona questa collisione tra mondi (cadenzata dal sipario che tutto e tutti accomuna della galaverna) viene narrata passando attraverso la fiaba, le leggende popolari, le usanze e i costumi ancestrali, la religione (un cristianesimo inquietante e pagano, fuori dal tempo). Diffidando del realismo, Corona si affida all’antropologia, a uno sguardo giustamente più ambiguo, mai sentenzioso. Le avventure di Margherita e delle ragazzine profughe, e i sogni, le favole, gli incubi, i riti della fame e del freddo si stampano contro il paesaggio imbiancato, e ogni volta tutto ricomincia daccappo perchè in questo mondo fuori dal mondo «tutto è già accaduto» e «tutto deve ancora accadere».
Naturalmente nel racconto ci sono anche i lupi, le streghe, un’osteria dove per carità bisogna ricordarsi di chiudere sempre la porta, sennò entra il gelo e il padrone ti abbaia addosso, e c’è anche un convento di suore, buone e megere, e ci sono la signora carestia, la regina Morte (che poi viene anche sconfitta, ma è solo una fiaba) e c’è una natura stremata, c’è la foresta.
Corona, che non è un pigro, e non è un furbo, usa moltissimi stili e registri per disegnare e il risultato finale è bellissimo, intenso, affascinante.
La galaverna è uno dei migliori romanzi a fumetti degli ultimi anni.