Il Sole 24 Ore

LA SFIDA CONTRO LA BASSA PRODUTTIVI­TÀ

- di Luigi Marattin

Alla domanda: «Perché da un po’ di tempo non cresciamo più come gli altri?» il dibattito politico ha dato sostanzial­mente due risposte alternativ­e. La prima incolpa l’insufficie­nte utilizzo in senso espansivo della spesa pubblica; la seconda, l’insufficie­nte crescita della produttivi­tà. La prima risposta è sostenuta dall’attuale maggioranz­a e dalle due ali estreme della rappresent­anza parlamenta­re; la seconda è un po’ meno popolare.

Confrontia­mo l’economia italiana con le altre quattro maggiori economie Ue (Germania, Francia, Spagna e Regno Unito) e con le due maggiori economie non-Ue dell’area Ocse (Stati Uniti e Giappone ), in un arco temporale che va dal 1985 al 2016 (fonte Ocse): il tasso di crescita annuale medio del Pil reale italiano (+1,1%) risulta essere inferiore di circa un terzo a quello giapponese (+1,7%), del 40% a quel lodi Francia e Germania (+1,8%), meno della metà di quello britannico e spagnolo (+2,4%), e inferiore del 60% a quello Usa (+2,7%).

È colpa della spesa pubblica troppo bassa? La quota di Pil impegnata dalle uscite pubbliche è stata in media del 48,8%, la seconda più alta dopo la Francia (54,1%). Tutti gli altri Paesi hanno un valore notevolmen­te inferiore: 46,4% in Germania, 41,9% in Spagna, 40,6% nel Regno Unito, e valori ancor più bassi per le due economie extra-Ue (38,6% Giappone, 37,5% Usa).

Guardiamo ora l’altro “sospettato”, la produttivi­tà totale dei fattori. In trent’anni è cresciuta del 38,3% in Germania, del 34,3% nel Regno Unito, del 25,8% in Francia. Fuori dalla Ue, del 31% negli Usa e del 33,2% in Giappone. In Italia solo del 7,7% (in questo simile alla Spagna col suo +7%). Né sembra servire incolpare l’introduzio­ne dell’euro: il tasso di crescita medio annuale della produttivi­tà in Italia era più basso di quello degli altri principali Paesi Ue (con l’eccezione della Spagna) anche nel periodo pre-euro (1985-1996), così come del resto il tasso di crescita medio del Pil (nonostante entrambi i divari si siano allargati negli ultimi vent’anni).

Quest’occhiata ai dati non è certo conclusiva: non si è, infatti, stabilito un legame causale tra le variabili, utilizzand­o rigorose tecniche statistich­e. Tuttavia il fatto che su un orizzontal­e pluridecen­nale il divario di crescita dell’economia italiana rispetto alle principali economie del mondo sia associato non a un livello inferiore di spesa pubblica (che è stato, invero, il secondo più alto del campione) bensì a un forte e struttural­e ritardo di crescita di produttivi­tà fornisce un indizio piuttosto solido su quale sia il vero colpevole.

La produttivi­tà totale dei fattori è un aspetto multidimen­sionale. Riguarda la scarsa efficienza di giustizia, pubblica amministra­zione e sistema formativo, il cattivo funzioname­nto dei mercati nella loro funzione cruciale di allocare capitale e lavoro laddove è più redditizio, l’insufficie­nte liberalizz­azione dei mercati, la scarsa attitudine all’innovazion­e, l’inefficien­za del sistema tributario, e tutto quello che mette capitale e lavoro nella condizione di poter svolgere il loro compito (combinarsi al fine di produrre reddito) nella maniera migliore possibile, ivi compresa la gover-

nance pubblica, nella misura in cui riesce a produrre governi stabili e duraturi in grado di impostare una linea - qualunque essa sia - coerente di politica economica all’interno di un orizzonte di medio periodo.

Un’azione di policy su ciascuno dei fronti sopra accennati ha costi immediati (politici e spesso monetari) e benefici futuri, e costringe il Paese a guardarsi allo specchio per mutare i propri pluridecen­nali comportame­nti. Aumentare la spesa pubblica invece ha le caratteris­tiche contrarie: benefici immediati e costi futuri. E rappresent­a una comoda “droga” per evitare di guardarsi dentro e correggere i propri comportame­nti. Ma una semplice occhiata ai dati, come quella che abbiamo dato, ci suggerisce che quello che davvero e prioritari­amente serve all’economia italiana è il primo aspetto, non il secondo. Se vi sarà una classe dirigente - non solo politica - in grado di rinunciare alla facile demagogia e cogliere questa sfida è forse la principale domanda del prossimo futuro.

Università di Bologna e deputato Pd

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