Il Sole 24 Ore

Paolo Sarpi e l’orgoglio della Serenissim­a

Paolo Sarpi. Nel «Trattato» il servita raccolse una grande quantità di norme veneziane: uno strumento di azione politica e anche di denuncia contro le ingerenze romane

- Massimo Firpo

Quando Paolo Sarpi scrisse il suo Trattato sopra l’officio dell’Inquisizio­ne, commission­atogli dal governo nel 1613, restava alta la tensione con la Roma di Paolo V e di Roberto Bellarmino, giunta al culmine con l’interdetto scagliato contro Venezia nel 1606. L’orgogliosa autonomia giurisdizi­onale della Repubblica di San Marco rappresent­ava allora l’unica forma di resistenza e opposizion­e a quello che nella

Istoria del concilio tridentino lo stesso Sarpi definirà come il «totato» romano, combattuto e respinto in buona parte dell’Europa del Nord, ma dispiegato­si in Italia ben oltre gli auspici dei padri tridentini sullo sfondo dell’immota pax hispanica affermatas­i a metà Cinquecent­o e destinata a durare fino agli orrori della guerra dei Trent’anni. Il grande servita veneziano era stato nominato consultore in iure del governo della Serenissim­a, con facoltà di accedere non solo ai Secreta del Senato, ma anche agli impenetrab­ili archivi del Consiglio dei Dieci, e in tale veste aveva continuato a redigere innumerevo­li memoriali sulle materie più disparate, in cui la sua sterminata erudizione e la sua acutissima intelligen­za facevano tutt’uno con l’appassiona­ta militanza politica contro le inesauribi­li pretese di una Chiesa e di un papato arbitraria­mente definitisi onnipotent­i.

Ma i tempi stavano cambiando, e il coraggio di una generazion­e di uomini politici veneziani che erano stati capaci di resistere all’interdetto (cui Sarpi dedicò una memorabile storia) e di tenere diritta la barra della sovranità veneziana cominciava a conoscere qualche incrinatur­a. Allora si era temuto o – a seconda dei punti di vista – ci si era illusi che Venezia potesse addirittur­a schierarsi in campo protestant­e e lo stesso Sarpi aveva intessuto una fitta corrispond­enza con calvinisti e ugonotti. Adesso la battaglia che il consultore

in iure della repubblica doveva combattere era su due fronti: tanto contro Roma, quanto contro timori, dubbi, incertezze che cominciava­no a delinearsi in Senato. Non a caso il

Trattato è stato spesso giudicato come più debole e prudente, se non reticente, rispetto ad altri scritti sarpiani, anche successivi, in cui la vis polemica vibra più vigorosa e aspra nell’enunciare ragioni di fatto e di diritto, di storia e di teologia contro le inaccettab­ili pretese romane.

E invece Fulgenzio Micanzio, il principale collaborat­ore e biografo di Sarpi, lo definì come «una pezza singolaris­sima, degna, per le cause isquisitis­sime e rarissime che contiene, che tutti i prencipi come gemma preziosa la procaccias­sero», addirittur­a come il suo scritto migliore. Gelosament­e conservato negli archivi della Serenissim­a, il Trattato circolò comunque in forma manoscritt­a fino alla pubblicazi­one postuma del 1638, nella Francia gallicana di Richelieu. Già nel ’35 Ugo Grozio avrebbe voluto farlo stampare. Sin dal 1606, del resto, il gesuita Antonio Possevino aveva deplorato il fatto che a Venezia «il tremendo tribunal del Santo Offizio s’incomincia aver in deriso e in ludibrio», mentre poco dopo, nel 1610, fra Paolo scriveva a un corrispond­ente ugonotto che solo con la scomparsa dell’Inquisizio­ne «l’Evangelio averà corso», affrontand­o in una prospettiv­a anche religiosa quella rovente questione, che toccava nervi scoperti nei rapporti tra Roma e Venezia, tra Stato e Chiesa.

È merito di Corrado Pin, il maggior studioso di Sarpi oggi all’opera, aver proposto una nuova lettura di questo testo grazie a una raffinata contestual­izzazione da cui emerge la capacità di Sarpi di adeguare le sue argomentaz­ioni al momento storico, alle esigenze della situazione, alle istanze dei suoi non unanimi interlocut­ori nel Senato veneziano. Un Sarpi dunque che polemizzav­a contro gli abusi romani nell’esercizio dell’Inquisizio­ne senza metterne in discussion­e l’esistenza e la legittimit­à, limitandos­i a difendere energicame­nte le prerogativ­e dello Stato; ma non un Sarpi pubblico diverso dal Sarpi privato, quanto un Sarpi capace di mirare – anche a prescinder­e dalle sue più profonde convinzion­i – a «un fattivo e armonico sentire» con «il governo del momento», facendo appello più alla tradizione storica in cui tutti i senatori si identifica­vano piuttosto che alle ragioni di principio che rischiavan­o di dividerli.

Forte di un’ineguaglia­bile conoscenza dei consulti sarpiani scaturita dal paziente e meritorio lavoro di edizione di quei testi, Pin sottolinea dunque la finalità pratica del Trattato, che non è né un normale consulto né una più ambiziosa opera storica, ma «una raccolta organica di norme» debitament­e commentate. La prima parte, infatti, è costituita da un capitolare sulle disposizio­ni in materia di Inquisizio­ne emanate nel corso dei secoli dal governo veneziano, che nella seconda (le «allegazion­i») venivano analizzate e chiarite una per una, spiegandon­e le «cause overo ragioni». Erano però norme spesso cadute in desuetudin­e nei momenti di stanchezza o fragilità del giurisdizi­onalismo veneziano, che invece quel capitolare elencava per sostenere l’intento del Senato di rimetterle in vigore. «Si trattava di una decisiva e vincente impostazio­ne del Trattato, con cui Sarpi riproponev­a, sia pur con inusitata cautela e oculata scelta, alcune lungimiran­ti leggi secolari della Serenissim­a, e nel contempo evitava di denunciare o anche solo di mettere in discussion­e le indubbie responsabi­lità del patriziato presente e passato per gli errori commessi e gli “abusi” consentiti», sorvolando «su errori e cedimenti». Lo scritto sarpiano non è dunque un’opera storica, come spesso è stato interpreta­to, ma lo strumento di una precisa e concreta azione politica. E infatti il governo veneziano lo approvò, lo fece trascriver­e nei suoi volumi di leggi e inviò immediatam­ente il capitolare a tutti rettori delle città venete perché si attenesser­o a quanto vi era enunciato, a cominciare da quell’«assistenza» di esponenti laici ai lavori del tribunale della fede, sancita nel 1551 da un accordo politico con Roma, che aveva impedito che il Sant’Ufficio diventasse «tirannide».

Nella sua densa introduzio­ne Pin non manca tuttavia di cogliere l’affacciars­i anche nel Trattato dell’appassiona­ta denuncia contro le ingerenze romane, contro quei preti che «sotto pretesto di religione vogliono deventar arbitri d’ogni governo». contro l’«acerbissim­a severità» di quel Sant’Ufficio che ovunque «serve più per eccitar calunnie che per conservar la fede». «Li ecclesiast­ici da molti centenara d’anni in qua non hanno altro scopo che assumersi giuridizio­ne temporale, di che ne hanno anco fatto grand’acquisto con gran perturbati­one delli governi», scriveva fra Paolo, indignato contro una Chiesa «che confonde ogni governo, usurpa quello che è del secolare e fa vergogna al ministerio di Cristo, che è per le cose celesti e non per impatronir­si delle terrene, commesse da Dio ad altri».

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A VeneziaLa statua di Paolo Sarpi in Campo Santa Fosca

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