Ebbra e folle invenzione poetica
Il mondo di Bidel. Si può ora leggere in italiano «Il Sinai della conoscenza», capolavoro del più grande scrittore indo-persiano. Davanti agli occhi del lettore sfilano montagne e perle, arcobaleni e gocce, miniere e gelsomini
«Quella nube assomiglia a un balcone da dove si affaccia un amante con ciglia corvine: sono occhi, le gocce, ma pure una fila di sguardi. Da una vita il destino coltiva una tale follia sollevando volute di fumo da terra. E quel fumo ha tracciato per aria il disegno di un altro universo, nel quale l’amore ha piantato prolifici semi facendo assai fertile e verde qualsiasi orizzonte. È questo un terreno stracolmo di grazia che in basso soffriva e ha lasciato quel mondo inferiore». L’immagine della nube e della sua genesi, vertiginosa per inventiva fantastica, forse ermetica – come si può anche pensare “pur tra mille cautele” – introduce al mondo poetico di Bidel (Azimabad, oggi Patna, 1644 – Delhi 1720), il più grande scrittore indo-persiano.
Abbiamo oggi la fortuna di leggere in italiano, grazie alla cura di Riccardo Zipoli, una sua opera mai tradotta in nessuna lingua occidentale: Il Sinai della conoscenza, poema in 1.228 distici appena pubblicato da Cafoscarina e impreziosito sia dalla grafica ricercata sia dalle fotografie “espressioniste” della Valle di Bairat scattate dal curatore. Reso con squisita eleganza e con attenzione anche al ritmo del dettato, il testo è impervio in originale: al riguardo, una leggenda centro-asiatica narra che un uomo interpretò una strofe di Bidel in settanta modi diversi, ma che tutti furono smentiti dal poeta apparsogli in sogno! Come confida Zipoli, il suo arduo lavoro ha potuto valersi del contributo sistematico di uno fra i massimi studiosi di Bidel, Asadollah Habib, che qui volentieri menzioniamo, costretto a fuggire pericolosamente dal suo sfortunato Paese, l'Afghanistan, e ora in Germania.
Elevato il libro, ma davvero suggestivo e consono al suo titolo: il Sinai infatti, anche per la tradizione islamica (persiana in questo caso) è il luogo elettivo della visione e dell’apparizione divina. Qui ad apparire nei 36 brevi capitoli dell’opera è la natura, incorniciata nel resoconto di un viaggio compiuto dall’autore intorno al 1687 in Rajasthan, a Bairat poco a nord dell’attuale Jaipur, affascinante capitale ora molto visitata dai viaggiatori d’ogni paese. Dinanzi agli occhi incantati del lettore sfilano così montagne e perle, arcobaleni e gocce, miniere e gelsomini. Una festa visiva ebbra e forse folle (come nell'esperienza mistica), dove tuttavia lo sprigionarsi delle scintille si alterna al nero bistro delle nuvole burrascose, il riso superbo della rosa al pianto dell’usignolo che per lei si strugge infelicemente d’amore.
E le immagini, sovente espresse da accostamenti audaci, da cortocircuiti metaforici folgoranti, schiudono alla visione (appunto) di mondi ultraterreni, quasi in una reminiscenza del platonico, perfetto mondo delle idee, o del paradiso terrestre. Talora evocato anche esplicitamente come nella descrizione del giardino: «C’erano poi deliziosi pavoni vaganti nell’aria: grazie a loro la volta celeste era il nido dell’Eden». E lì «ribolliva di fiori lo spazio a tal punto che l’ombra di quelli per terra pareva un dipinto… Se la punta di un dito indicava siffatto giardino, sbucava, attaccato alla punta, il riflesso dell’arcobaleno… Le piante in subbuglio, riflesse sui vari ruscelli, sembravano dei pappagalli che schiudono, dentro uno specchio, le ali».
Da dove nasce il prodigio di questa inventiva poetica? Certo si radica in tradizioni secolari, innanzi tutto quella persiana, assorbita da Bidel con quella araba fin dall’infanzia attraverso uno studio appassionato; la sua lingua materna infatti non era il persiano, ma la hindi. Proprio dalla letteratura indiana, anche in sanscrito – che aveva appreso come pure il turco e l’urdu – provengono d’altra parte suggestioni diverse, decisive per l’originalità e la varietà della sua produzione sterminata, che gli hanno assicurato le definizioni più contraddittorie, da mistico a materialista, da immaginifico a scientifico, da colloquiale a barocco. Nel Sinai si fondono così stilemi e convenzioni simboliche, retoriche, poetiche prettamente persiane, ma pure indiane classiche: immagini emblematiche come l’usignolo e la rosa già ricordati, lo specchio, la candela, la lacrima; eziologie fantastiche – le albe non sono che i resti di rossi crepuscoli spenti –, ma anche l’attenzione assoluta ai dati sensibili o la propensione a intensificare la realtà naturale oltre i confini del possibile (ma non dell’emozione): «… evviva quei monti sui quali il riflesso rosato del cielo diffonde il colore scarlatto di bei tulipani». Qui come altrove nell’opera, molto amati sono i riflessi, con il loro magico potere di congiungere all’infinito fra loro universi lontani.
C’è però, dietro alle grandi tradizioni letterarie che lo hanno nutrito, una matrice più profonda dell’originalità di Bidel, che asserisce con inequivocabile sintesi: «Solo stando lontano dall’io si sviluppa l'essenza interiore». E per dissolvere l’io che ottunde e divora lo spirito, quale via migliore della contemplazione della natura? Del resto, secondo la convinzione religiosa del poeta, di impronta mistica sufi, per unirsi al Creatore trascendente è richiesto all’uomo non di trascurare e disprezzare le parvenze terrene, ma di guardarle e conoscerle: perciò – come felicemente scrive Zipoli – «le bellezze del luogo assumono un aspetto traslucido che apre squarci verso il mondo divino». E noi – così recita un distico di Bidel da un’altra sua opera – «Siamo come riflessi, pura polvere, ma il peso dei sogni, / come stupore, non può che ancorarci sul fondo allo specchio».