Cantore di giardini beati e di catafalchi
La monografia dedicata da Giulia Poggi a Luís de Góngora (1561-1626) permette di scorgere e di misurare ai suoi più alti livelli i contenuti e i procedimenti letterari della cultura barocca europea. Docente universitaria di spagnolo, esperta di quel secolo d’oro e dello scrittore cordovese, la Poggi accompagna e sorregge costantemente il profilo dello scrittore e la varietà dei suoi scritti con citazioni dirette, come in una brillante e stimolante antologia; e quanto più ci si addentra nelle sue pagine, tanto più cresce la meraviglia per la ricchezza di questa poesia (e del resto, è del poeta il fin la meraviglia), per la sua coerenza nello stendere le trame e poi nel ricamarvi sopra inesauribilmente le parole. Dappertutto e per tutto la mitologia e le letterature classiche, riserve di caccia inesauribili, forniscono immagini, personaggi, paragoni; i sospiri e le consolazioni, le personificazioni al vivo dei sentimenti e la delineazione dei paesaggi. È come ritrovarsi in una galleria d’arte o nel giardino di un castello della Loira.
Già nei primi romances di fine Cinquecento scene comiche sono ricalcate su quella di Marte e Venere impigliati da Vulcano e sbeffeggiati ignudi nella rete, e su altre simili, come nei trionfi bacchici. Al che si affiancano pastorellerie a cui il poeta assiste, calcate sul versante dell’idillio e poi straordinariamente impreziosite mediante altri paragoni col bianco coro delle ninfe di Diana ospiti delle acque dei fiumi e delle ombre dei boschi. Mentre nel poemetto-favola penosoerotico di Prometeo e Galatea (1612), discendente delle Metamorfosi ovidiane e passato anch’esso al setaccio di tanti altri grandi cantori, lo sfondo è il mare regno della spuma, con la bellezza della ninfa quale di rose, gigli, garofani e gabbiani, contrastante la cupida deformità dell’infelice ciclope monocolo e con l’orrore della sua solitaria caverna rocciosa.
Se la presenza di questi quadri richiama anche l’Arcadia e l'inizio del classicismo umanistico, sul lato amoroso si fa largo Catullo e su quello baldanzoso e lieto Anacreonte.
Più difficile l’inserimento di Orazio, ma poi si affianca anch’egli al nuovo poeta per accompagnarlo assai più che in reminiscenze e sfide letterarie, maestro di una semplicità difficile per una poesia barocca e per i suoi estremismi. Egli innesta nella poesia gongorina i suoi atteggiamenti pacati e le sue norme, la sua filosofia e la sua saggezza, l’estraneità alle corti, il disprezzo del lusso e la soddisfazione del poco; così difficili, che tutto ciò viene anche piegato dall’ironia e usato a scopi satirici.
Góngora entra nelle tenzoni che su questo fronte ingaggiano grandi poeti fra loro lontani nel tempo e nello spazio, lavorando l’uno sull’altro e di fronte all’altro.
Il Petrarca, di cui Ungaretti vide una continuità in Góngora, aprì una lunga trafila rifacendo in un suo sonetto un altro carme squillante del secondo libro Orazio «Ponimi in campi inoperosi ove nessuna | pianta alle brezze estive si ravviva, | nella parte del mondo oppressa dalla bruma | e da un clima maligno; | ponimi nelle terre inabitabili | sotto il carro del sole troppo vicino: | io amerò il soave sorriso di Làlage, | la sua soave favella». Ripreso più da vicino all’altro capo della trafila da Marino e trapiantato in terra iberica da Garcilaso de la Vega, Góngora lo pone in bocca a una fanciulla, così: «Mandami nell’aspra Libia | piena di serpenti, dove | se il sole avvampa la rena, | la rena avvampa la luna; | mandami in regioni gelide | in mezzo a nevi perenni | con poche orme di fiera | e nessuna che sia umana...».
Così si svolse e si resse la letteratura per tre secoli, attribuendo al guerriero la spada di Achille e al pastore la siringa di Pan, all’avventuriero la scaltrezza di Ulisse e all’innamorato i canti di Orfeo; rinnovando sulle scene l’Andromaca di Euripide e l’avaro di Plauto. Góngora apportò, come nota la Poggi sin dalle prime pagine del suo libro, un proprio contrassegno di una vena popolaresca e burlesca, del doppio registro comico e sublime pur nell’alta complessità dei versi e dei componimenti; e la frequenza e la capacità della metafora di arricchire enormemente la realtà e di sovrapporgliene altre. Strumenti mediante i quali egli raggiunge gli scopi supremi della letteratura del suo tempo, come notava Garcìa Lorca a cui la Poggi dedica uno dei capitoli finali sugli echi gongoriani novecenteschi. Né, se altro compito del poeta è, secondo Lorca, quello di professare tutt’e cinque i sensi, altri ne furono altrettanto capaci e lo eseguirono più di lui. Perché il poeta dei giardini beati è anche quello dei catafalchi «pompa di dolor, segno non vano | di nostra vanità» dei Sonetti funebri, tradotti nel ’55 dal giocoso Piero Chiara, ma anch’egli con gusti cimiteriali. Come volevasi dimostrare.