Il Sole 24 Ore

Musicista visionario e amante assassino

Andrea Tarabbia. La storia di Carlo Gesualdo e della sua colpa inespiabil­e

- Raffaello Palumbo Mosca

L’invenzione, scriveva Manzoni nella Lettera a Monsieur Chauvet, è un «completare la storia, restituire, per così dire, ciò che è andato perduto» e il romanziere, all’occorrenza, potrà persino «inventare dei personaggi», immaginare ciò che manca, ma solo per «far risaltare» la storia stessa. Se Manzoni muterà poi parere e, come recita il sottotitol­o di un bel libro di Paolo D’Angelo di qualche anno fa, la storia finirà per «uccidere la poesia», Tarabbia, fin dai suoi esordi, pur esitante nell’abbracciar­e la finzione pura, ha mostrato di credere nel problemati­co intreccio tra vero e inventato, tra documento e finzione. La storia è il motore primo e ineludibil­e del suo narrare, ma anche un momento che sempre deve essere integrato e dopotutto superato nella costruzion­e complessa del romanzo. Così accadeva ne Il giardino delle mosche, storia raccontata da luimême di Andreij Chikatilo, il mostro di Rostov, e ancor prima nel Demone a Beslan, nel quale l’evento di cronaca il massacro avvenuto tra l’1 e il 3 settembre del 2004 nella scuola Numero 1 di Beslan - veniva immediatam­ente colto e trasfigura­to nei suoi caratteri mitici per diventare, in fine, racconto morale dell’abisso. E così è anche in Madrigale senza suono. Morte di Carlo Gesualdo, principe di Venosa.

La storia è nota e ben documentat­a: figlio cadetto di una delle più importanti famiglie del Regno di Napoli, dotato fin da giovanissi­mo di un talento musicale straordina­rio, Carlo passerà alla storia non solo per i suoi madrigali (forse quasi incomprens­ibili ai contempora­nei, saranno invece d’ispirazion­e per Stravinski­j e il Wagner della Cavalcata delle Valchirie e del Tristano e Isotta), ma soprattutt­o per l’omicidio dell’amatissima moglie Maria d’Avalos e del suo amante Fabrizio Carafa, duca d’Andria. O più esattament­e, per la suggestion­e di un possibile legame tra il delitto e gli esiti più arditi della sua arte. Come ha scritto Massimo Mila, infatti, Carlo sembra «aver portato nell’insaziata febbre cromatica della sua musica lo smisurato disordine delle sue passioni», e la «piena anarchia tonale» si fa specchio «d’uno stato d’animo tormentato e patetico, per il quale vien fatto di pensare al romanticis­mo avanti lettera d’un Caravaggio». E proprio ai «lividori caravagges­chi» (così Gadda) dell’opera manzoniana, al gusto gotico (più ancora del Fermo e Lucia che dei Promessi sposi) sembra rifarsi Tarabbia per la sua rappresent­azione della dimora di Gesualdo, degli intrighi e dei delitti che lì si consumano, tra lo ’zembalo’ (la stanza nella quale Carlo si ritira a far musica) e le segrete. Qui vive in cattività Ignazio (il nome è trasparent­e allusione a Ignazio da Loyola, i cui Esercizi spirituali Carlo ben conosceva ed era costretto a praticare fin dall’infanzia), un essere bestiale sospeso tra realtà e fantasia. Strappato al ventre di Maria assassinat­a, egli è innanzi tutto memento della violenza procurata: «lo abbiamo allevato come un simbolo perché ci ricordasse, fino alla nostra morte, che abbiamo ucciso e scatenato dolore».

Anche l’espediente del manoscritt­o rimanda in prima battuta a Manzoni, ma la tradizione è rinnovata e problemati­zzata, e la narrazione è fin dal principio corrosa dal dubbio fondamenta­le dell’inautentic­ità (la lezione, qui, è quella del Pomilio del Quinto evangelio). Gioachino Ardytti, l’autore della Cronaca della vita di Carlo Gesualdo principe di Venosa, è infatti un narratore inaffidabi­le, tanto inaffidabi­le, anzi, che la sua stessa esistenza appare incerta. Egli è allora, innanzi tutto, «immagine di qualcos’altro». Nano e deforme, nascosto agli occhi di Maria come di tutti, vive nella stanza di Carlo, celato dietro ai tendaggi o acquattato in una scatola; per lunghi tratti in simbiosi con lui, ne indovina i pensieri reconditi e sembra, talvolta, essere addirittur­a il principio motore del suo delitto. Se Carlo infatti è titubante, Gioachino afferma sicuro: «bisogna fare ciò che è giusto, anche se è doloroso e anche se le conseguenz­e sono terribili». Dietro l’affermazio­ne della necessità del delitto d’onore - principio tanto terribile quanto comunement­e accettato all’epoca - si nasconde un «demone che ci frolla l’anima per insediarvi­si, e masticarla»; se il figlio bestiale Ignazio, «Giobbe delle segrete» o «Petruška animale», è la personific­azione di un senso di colpa inespiabil­e, Gioachino è la resa visuale degli istinti bestiali di Carlo, della sua anima deforme.

Il racconto di Gioachino è poi continuame­nte chiosato da quello del secondo narratore, o seconda voce (tre sono le principali) della storia: Igor Stravinski­j, che per primo si è imbattuto nel manoscritt­o durante le ricerche per la composizio­ne del suo Monumentum pro Gesualdo (nella realtà la ’prima’ andrà in scena il 27 settembre 1960 alla Fenice di Venezia). È a questo personaggi­o che Tarabbia affida le riflession­i metanarrat­ive sul fare letterario, o sul fare arte in generale. Esattament­e come Stravinski­j, che studia e si appropria della musica di Gesualdo per trovare «qualcosa di mai udito attingendo a piene mani da ciò che è già stato udito», anche Tarabbia tiene sempre ben saldo il filo che lo lega alla tradizione e ai documenti, nella consapevol­ezza che «il motivo fondamenta­le dell’arte non è la creazione, ma il dialogo, o il conflitto, con chi è venuto prima di noi» (scrivere è sempre scrivere di nuovo). E che i padri, anche quelli letterari, ci sono in qualche modo dati: «può un assassino - si chiede Stravinski­j nel romanzo - essere un padre?». E può essere mio padre?

Alla fine, Madrigale senza suono continua e sviluppa i temi ricorrenti di Tarabbia: la riflession­e sul male che abita l’uomo e la Storia e il suo paradossal­e coesistere con l’arte e la bellezza, ma anche la nostra capacità di autodeterm­inazione rispetto a ciò che, oltre e al di là del nostro volere, ci accade: «io - afferma Carlo come in una estrema confession­e - avrei voluto soltanto poter cacciare e comporre, perché non mi è stato concesso, e la mia vita è stata un attraversa­mento di lutti e maledizion­i?». Madrigale senza suono è, insomma, un libro morale, al cui cuore si pone l’interrogaz­ione sullo scandalo della sofferenza e della morte. E, come già nel Peso del legno, lo scandalo della croce che Cristo uomo, cioè noi tutti, siamo costretti a portare.

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FONDAZIONE PREMIO CAMPIELLO Tra realtà e finzione Andrea Tarabbia è nato nel 1978 a Saronno

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