Musicista visionario e amante assassino
Andrea Tarabbia. La storia di Carlo Gesualdo e della sua colpa inespiabile
L’invenzione, scriveva Manzoni nella Lettera a Monsieur Chauvet, è un «completare la storia, restituire, per così dire, ciò che è andato perduto» e il romanziere, all’occorrenza, potrà persino «inventare dei personaggi», immaginare ciò che manca, ma solo per «far risaltare» la storia stessa. Se Manzoni muterà poi parere e, come recita il sottotitolo di un bel libro di Paolo D’Angelo di qualche anno fa, la storia finirà per «uccidere la poesia», Tarabbia, fin dai suoi esordi, pur esitante nell’abbracciare la finzione pura, ha mostrato di credere nel problematico intreccio tra vero e inventato, tra documento e finzione. La storia è il motore primo e ineludibile del suo narrare, ma anche un momento che sempre deve essere integrato e dopotutto superato nella costruzione complessa del romanzo. Così accadeva ne Il giardino delle mosche, storia raccontata da luimême di Andreij Chikatilo, il mostro di Rostov, e ancor prima nel Demone a Beslan, nel quale l’evento di cronaca il massacro avvenuto tra l’1 e il 3 settembre del 2004 nella scuola Numero 1 di Beslan - veniva immediatamente colto e trasfigurato nei suoi caratteri mitici per diventare, in fine, racconto morale dell’abisso. E così è anche in Madrigale senza suono. Morte di Carlo Gesualdo, principe di Venosa.
La storia è nota e ben documentata: figlio cadetto di una delle più importanti famiglie del Regno di Napoli, dotato fin da giovanissimo di un talento musicale straordinario, Carlo passerà alla storia non solo per i suoi madrigali (forse quasi incomprensibili ai contemporanei, saranno invece d’ispirazione per Stravinskij e il Wagner della Cavalcata delle Valchirie e del Tristano e Isotta), ma soprattutto per l’omicidio dell’amatissima moglie Maria d’Avalos e del suo amante Fabrizio Carafa, duca d’Andria. O più esattamente, per la suggestione di un possibile legame tra il delitto e gli esiti più arditi della sua arte. Come ha scritto Massimo Mila, infatti, Carlo sembra «aver portato nell’insaziata febbre cromatica della sua musica lo smisurato disordine delle sue passioni», e la «piena anarchia tonale» si fa specchio «d’uno stato d’animo tormentato e patetico, per il quale vien fatto di pensare al romanticismo avanti lettera d’un Caravaggio». E proprio ai «lividori caravaggeschi» (così Gadda) dell’opera manzoniana, al gusto gotico (più ancora del Fermo e Lucia che dei Promessi sposi) sembra rifarsi Tarabbia per la sua rappresentazione della dimora di Gesualdo, degli intrighi e dei delitti che lì si consumano, tra lo ’zembalo’ (la stanza nella quale Carlo si ritira a far musica) e le segrete. Qui vive in cattività Ignazio (il nome è trasparente allusione a Ignazio da Loyola, i cui Esercizi spirituali Carlo ben conosceva ed era costretto a praticare fin dall’infanzia), un essere bestiale sospeso tra realtà e fantasia. Strappato al ventre di Maria assassinata, egli è innanzi tutto memento della violenza procurata: «lo abbiamo allevato come un simbolo perché ci ricordasse, fino alla nostra morte, che abbiamo ucciso e scatenato dolore».
Anche l’espediente del manoscritto rimanda in prima battuta a Manzoni, ma la tradizione è rinnovata e problematizzata, e la narrazione è fin dal principio corrosa dal dubbio fondamentale dell’inautenticità (la lezione, qui, è quella del Pomilio del Quinto evangelio). Gioachino Ardytti, l’autore della Cronaca della vita di Carlo Gesualdo principe di Venosa, è infatti un narratore inaffidabile, tanto inaffidabile, anzi, che la sua stessa esistenza appare incerta. Egli è allora, innanzi tutto, «immagine di qualcos’altro». Nano e deforme, nascosto agli occhi di Maria come di tutti, vive nella stanza di Carlo, celato dietro ai tendaggi o acquattato in una scatola; per lunghi tratti in simbiosi con lui, ne indovina i pensieri reconditi e sembra, talvolta, essere addirittura il principio motore del suo delitto. Se Carlo infatti è titubante, Gioachino afferma sicuro: «bisogna fare ciò che è giusto, anche se è doloroso e anche se le conseguenze sono terribili». Dietro l’affermazione della necessità del delitto d’onore - principio tanto terribile quanto comunemente accettato all’epoca - si nasconde un «demone che ci frolla l’anima per insediarvisi, e masticarla»; se il figlio bestiale Ignazio, «Giobbe delle segrete» o «Petruška animale», è la personificazione di un senso di colpa inespiabile, Gioachino è la resa visuale degli istinti bestiali di Carlo, della sua anima deforme.
Il racconto di Gioachino è poi continuamente chiosato da quello del secondo narratore, o seconda voce (tre sono le principali) della storia: Igor Stravinskij, che per primo si è imbattuto nel manoscritto durante le ricerche per la composizione del suo Monumentum pro Gesualdo (nella realtà la ’prima’ andrà in scena il 27 settembre 1960 alla Fenice di Venezia). È a questo personaggio che Tarabbia affida le riflessioni metanarrative sul fare letterario, o sul fare arte in generale. Esattamente come Stravinskij, che studia e si appropria della musica di Gesualdo per trovare «qualcosa di mai udito attingendo a piene mani da ciò che è già stato udito», anche Tarabbia tiene sempre ben saldo il filo che lo lega alla tradizione e ai documenti, nella consapevolezza che «il motivo fondamentale dell’arte non è la creazione, ma il dialogo, o il conflitto, con chi è venuto prima di noi» (scrivere è sempre scrivere di nuovo). E che i padri, anche quelli letterari, ci sono in qualche modo dati: «può un assassino - si chiede Stravinskij nel romanzo - essere un padre?». E può essere mio padre?
Alla fine, Madrigale senza suono continua e sviluppa i temi ricorrenti di Tarabbia: la riflessione sul male che abita l’uomo e la Storia e il suo paradossale coesistere con l’arte e la bellezza, ma anche la nostra capacità di autodeterminazione rispetto a ciò che, oltre e al di là del nostro volere, ci accade: «io - afferma Carlo come in una estrema confessione - avrei voluto soltanto poter cacciare e comporre, perché non mi è stato concesso, e la mia vita è stata un attraversamento di lutti e maledizioni?». Madrigale senza suono è, insomma, un libro morale, al cui cuore si pone l’interrogazione sullo scandalo della sofferenza e della morte. E, come già nel Peso del legno, lo scandalo della croce che Cristo uomo, cioè noi tutti, siamo costretti a portare.